A ventisei anni, una laurea da poco alle spalle, le prime esperienze lavorative nell'ambito del legal aziendale e l'intraprendenza di chi vuole mettere se stesso al centro del proprio percorso, Valeria Castellani era una ragazza normalissima. Eppure, come dirà lei, «stare davanti alla tv non mi bastava più, volevo toccare con mano la realtà proposta quotidianamente nei telegiornali». Ecco la decisione che l'ha sradicata dalla realtà ordinaria di una qualsiasi giovane della sua età e l'ha proiettata in un un mondo sconosciuto, pericoloso, di cui al massimo si sentiva parlare negli approfondimenti di geopolitica. Una decisione drastica, senza ripensamenti: Valeria vende macchina e moto e parte. Destinazione: Afghanistan. Lì si interessa particolarmente al mondo delle Ong che operano in territori di guerra e tocca con mano quelle realtà scevre del pallido riflesso che ci giunge di ritorno dagli organi di informazione. In seguito le esperienze in Iraq e l'ingaggio quale contractor sotto la supervisione dell'Us Department of Defense: un lavoro estremamente pericoloso, di scorta a dei tecnici che si occupavano di installazioni e manutenzione delle linee di telecomunicazione. Gli spari, i bombardamenti col mortaio, la paura che assume un significato tangibile.
Ora Valeria Castellani è Security Manager per un marchio che opera nel lusso, ma certe esperienze se le porterà dietro per sempre. Intervistata per conto di Sky Atlantic nell'ambito del documentario "Professione Contractor" della serie "Il racconto del reale", Valeria, che sta scrivendo un'autobiografia in cui mettere nero su bianco una vita tanto "avventurosa", ha voluto rispondere, in esclusiva per Spraynews.it a qualche domanda.
Come nasce un'esperienza che è riduttivo definire particolare in un settore tanto rischioso?
«Il mio è stato un inizio che definirei drastico. Dopo la laurea e qualche esperienza nel legal aziendale, mi sono interessata in maniera consistente al mondo delle Ong in territori di guerra. Sono stata in missione in Afghanistan prima e in Iraq poi, dove, in seguito a varie vicissitudini, ho iniziato la mia esperienza nel campo della security, un ramo che era in quegli anni agli albori nei territori in cui mi trovavo»
Di che cosa si è occupata nello specifico nel settore della security?
«Ho iniziato a lavorare per aziende inglesi e americane, sotto la supervisione del Dipartimento di Difesa americano come operatore di scorta. A bordo di veicoli non corazzati, detti low profile, accompagnavo dei tecnici americani che lavoravano per una multinazionale americana che aveva vinto l'appalto per il ripristino delle infrastrutture di telecomunicazione in Iraq, nella zona di Baghdad e dintorni. Scortavamo gli ingegneri sino alle torri di comunicazione e alle "padelle" di macrowave e garantivamo loro il massimo grado di incolumità possibile»
C'è un aneddoto in particolare che ricorda e che può aiutare a comprendere quale fosse la situazione in cui si è trovata ad operare?
«Di storie e vicende ce ne sarebbero tantissime. Negli anni in considerazione in cui lavoravo con le Ong, ho collaborato in stretto contatto con le due Simone (Simona Parri e Simona Torretta ndr.), che sono poi state rapite e finite al centro dell'attenzione mediatica. Lo stesso per Fabrizio Quattrocchi che lavorava nella stessa compagnia in cui mi trovavo io ed era con me poche ore prima della partenza e del conseguente rapimento»
Quello dei contractors è un settore molto oscuro, nel senso che è poco conosciuto e pubblicizzato. Può darci una stima di quanti eravate?
«Eravamo all'incirca quindicimila e secondo alcune stime almeno tremila sono morti. Lavoravamo in una sorta di semi ufficialità e non c'era particolare riguardo quando qualcuno di noi veniva ferito o rimaneva ucciso durante le operazioni»
Contractor e mercenario, qual è la differenza sostanziale?
«Mercenario indica in genere una connotazione dispregiativa di un individuo che prende parte a un conflitto senza far parte di una delle fazioni coinvolte. Indica una natura sovversiva del lavoro, fuori dal contesto delle norme internazionali. Noi operatori di scorta agivamo tutti indirettamente sotto il controllo del Dipartimento di Difesa americano, alla luce del sole»
Quali erano i pericoli maggiori a cui dovevate far fronte?
«A quel tempo c'erano all'incirca trecento attacchi al giorno da parte degli insurgents (guerriglieri, ndr). Autobombe, bombe in strada, attacchi combinati, la situazione era decisamente calda. Il nostro compito consisteva nel portare in salvo il cliente e l'ordine era di rispondere al fuoco soltanto per mettersi in salvo e abbandonare l'area interessata. La notte eravamo continuamente bersaglio di bombardamenti col mortaio, spessissimo i colpi cadevano a cento metri da dove sostavamo. Una volta, di giorno, da un tetto di una casa, è partito contro di noi un colpo di Rpg. Ovviamente non siamo stati colpiti o non sarei qui a raccontarlo. Sono stati momenti di autentico panico»
Il team con cui ha lavorato era composto da persone con un'esperienza nel mondo civile come la sua, o erano tutti ex militari?
«Praticamente erano tutte persone con un una carriera militare alle spalle. Io mi sono trovata, per così dire, al posto giusto nel momento giusto. Ho ottenuto un addestramento sulle tecniche militari di combattimento direttamente in loco, della serie o impari o te ne vai. Per di più conoscevo molto bene l'area, guidavo per Baghdad conoscendola a menadito e per tanto nel momento in cui c'è stata necessità di personale da reclutare mi sono ritrovata catapultata in questa realtà. Parlavo già un po' di arabo e senza chiedermelo due volte ho accettato. Nel corso del tempo la professionalità si è evoluta e ho imparato moltissime cose che mi hanno spinto ad andare avanti»
Cosa spinge una donna giovane a lasciare le certezze, identificabili in una vita in Europa, per affacciarsi a un mondo non solo tanto pericoloso, ma così diverso?
«Volevo toccare con mano quelle realtà. Non volevo restare qui davanti alla televisione, volevo andare di persona a capire cosa stesse succedendo. Casualmente nel 2001 mi trovavo in Russia per un progetto a cui stavo lavorando, che è totalmente franato con il crollo delle Twin Towers e mi sono ritrovata senza lavoro. Mi sono allora domandata cosa volessi fare e ho deciso di lasciare la casa, vendere la macchina e la moto e partire per conoscere quelle realtà del mondo che mi interessavano. A ventisei anni, senza alcun vincolo, mi sembrava un buon momento per essere protagonista della mia esistenza»
Quale era il rapporto di genere nell'ambito dei contractors? E quali sono state, se ci sono state, le maggiori difficoltà per una donna al fronte?
«Credo che di quindicimila che eravamo, in tre o quattro fossimo donne. Si può dire che è un lavoro al 99% maschile. C'erano ovviamente donne soldato, ma non operatori di scorta. Le difficoltà di cui parla le ho sempre percepite maggiormente in Italia, dove il maschilismo domina ed è dilagante. La mia esperienza all'estero mi ha insegnato che se sei in grado di fare ciò per cui sei stata ingaggiata, non ci bada nessuno, anzi, semmai può essere un punto di forza»
Dopo un'esperienza del genere, come è stato tornare in Italia, alle origini?
«Molto difficile, soprattutto all'inizio non volevo saperne di tornarci. Subito dopo l'Iraq sono transitata per un breve periodo prima di andare in America, dopodiché ho vissuto in Francia per tornare poi definitivamente in Italia nel 2008 quando mi è stato offerto un lavoro da parte di una società americana con sede in Italia»
di Alessandro Leproux
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