Roberto Alesse, dal 2011 al 2016 Garante per gli scioperi nei servizi pubblici essenziali, nonché autore di importanti saggi giuridici, tra cui l’ultimo libro “Il Declino del potere pubblico in Italia”, in un’intervista a Spraynews, sottolinea come il modello Draghi debba fare da apripista a una borghesia tecnica che deve recuperare terreno, favorendo la logica dei migliori prospettata da Max Weber, tramite concorsi molto selettivi, che non devono essere più teorici, ma pratici.
Quale la strada per salvare chi dovrebbe guidare il Paese nell’era della globalizzazione e delle pandemie?
«Tornando al punto di origine, rilanciando il tema delle competenze, messe al bando da quando l’Italia, da un punto di vista politico, ha abdicato al neo populismo che si è impadronito dei gangli del potere, portando verità presunte, in nome di un popolo, che falsamente indica la strada maestra. Questo populismo ha portato a sbattere e da qui c'è l’esigenza che la gestione del potere pubblico venga saldamente riconsegnata a una borghesia che deve recuperare terreno e scendere dall’Aventino su cui si è ritirata, dando un contributo per fare le benedette riforme».
Quanto sono importanti?
«L’Italia si è fermata sul riformismo. Ha avuto tante possibilità di riformare, in chiave liberale, l’ordinamento giuridico. E’ indispensabile riprendere il cammino. Draghi, sotto questo punto di vista, è una risorsa da cui attingere. Speriamo che si inverta davvero la rotta».
Non le sembra, però, che spesso la funzione del pubblico venga vista solo come lo stereotipo descritto nei film di Zalone?
«Sono caricature, parodie che lasciano il tempo che trovano. Il potere pubblico è necessario perché senza il ruolo propulsivo dello Stato, c’è il Far West, c’è solo l’iniziativa privata in nome di interessi che nulla hanno a che vedere con la gestione del potere in nome e per conto della collettività. Il vero problema, semmai, è che l'esercizio del potere pubblico è scaduto in termini di qualità».
Perché?
«Le classi dirigenti, in qualche modo, sono scomparse. Si sono inabissati i meccanismi di selezione e non ci sono più i corpi intermedi che un tempo formavano e mediavano con la conseguenza che il popolo si fa rappresentare da un ceto politico di basso livello».
Colpe del decadimento della classe dirigente sono attribuibili a una politica che non sempre ha fatto prevalere la meritocrazia…
«Quando parlo di classe dirigente, non ci metto solo quella dirigenziale che gestisce il potere pubblico all’interno degli apparati. In primo luogo, c’è la politica che ha fallito il suo obiettivo. Dopo la caduta della prima repubblica, non c’è stata nessuna nuova alba. A partire dal berlusconismo in poi, non si è spinto l’acceleratore su un processo di liberalizzazione dell'ordinamento per consentire all’economia di correre. Il Paese ha bisogno di una selvaggia deregulation di tipo anglosassone, dove tutto ciò che non è esplicitamente vietato è consentito. Qui si è andato avanti, invece, con una iper-regolamentazione improduttiva che ha bloccato il Paese, arretrandolo non solo in termini culturali, con la nascita del neopopulismo, ma anche in termini di peggioramento della qualità della vita. La damnatio memoriae deve cadere su chi ci ha governato negli ultimi trenta anni, in quanto si è prodotto un pessimo riformismo di cultura anti-liberale».
Cosa succede se non si inverte la rotta?
«Facciamo la fine dell’Argentina, che nonostante sia stato un paese ricco, è andato poi a sbattere ed è stato sull’orlo della bancarotta per la totale evanescenza e insipienza delle classi dirigenti di turno».
Con il governo Draghi, come d’altronde, sottolineato dall’Economist, si sono fatti passi in avanti?
«Draghi è stato un barlume di positività che all’improvviso si è calato all'interno delle tenebre. Il governo Draghi, però, è soprattutto Mario Draghi, che incarna i suoi indiscussi meriti professionali. Appartiene a quell’élite di stampo borghese lontanissima dalle istanze neopopuliste e che fa della competenza scientifica la bussola di orientamento per una nuova gestione della cosa pubblica. Da questo punto di vista, speriamo che l’insegnamento lasci un tangibile segno».
Fa bene il premier a lasciare Palazzo Chigi per andare al Quirinale in un momento così delicato?
«Vedremo solo a fine gennaio chi andrà al Quirinale. Da quando è andato Draghi a Palazzo Chigi le cose sono migliorate e l’apprezzamento per l’Italia è aumentato a dismisura. Ci vorrebbero cento-mille Draghi per risollevarla. Occorrerebbe una grande alleanza tra pubblico e privato. Altrimenti lasciamo a quei pochi giovani che restano nel Paese un futuro molto incerto e faticoso da costruire».
La formazione è fondamentale per le nuove generazioni. Su quali aspetti intervenire?
«Deve essere legata innanzitutto al tema del lavoro, mentre, invece, in Italia tale link è stato sempre abbastanza labile. La formazione deve essere proiettata verso le grandi trasformazioni tecnologiche e industriali, che in tutto il pianeta, si stanno verificando. Da questo punto di vista, occorre irrigidire i meccanismi di selezione e, quindi, tornare alla regola aurea dei concorsi molto selettivi, che non devono essere più teorici, ma concreti, pratici, proiettati al futuro. Occorre far vincere la logica dei migliori. Il Paese non può essere più gestito dai Cetto La Qualunque qualsiasi. La politica conta di meno rispetto a prima perché prevale l’economia turbo-capitalistica e in un’era post-ideologica, ma fortemente innovativa, serve lasciare spazio al sapere d’ufficio, senza il quale non c'è progresso».
Di Edoardo Sirignano
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