Dal caso Palamara all'incredibile condanna di Vendola, tutti i segnali di un pericoloso corto circuito.
“Prima o poi i nodi vengono al pettine. Dal 1992 in poi la cosiddetta «magistratura associata», cioè quella organizzata in correnti, prima ha conquistato il pieno potere sul terreno processuale, nel senso che ha ridotto ai minimi termini la dialettica con la difesa anche grazie a un rapporto assai privilegiato con i media (televisioni e giornali), successivamente questo potere giudiziario è stato tradotto in potere politico: alcuni partiti (il Psi, i partiti laici, larga parte della Dc) sono stati liquidati, altri (il Pds, An, in parte la Lega Nord) prima sono stati salvati, poi usati e sottomessi, poi ne è sorto un altro (il M5s) che è nato addirittura come braccio politico e parlamentare delle procure. Alla lunga questo superpotere della magistratura è imploso, in primo luogo per l'assenza di regole che lo governassero, in secondo luogo, come sempre accade in questi casi, l'implosione è avvenuta per l'esplosione di contraddizioni interne e anche per l'utilizzazione di strumenti di cui non è stata valutata l'intrinseca forza dirompente, come il trojan utilizzato contro Luca Palamara, che era una sorta di regista del «sistema» fondato sulla lottizzazione totale delle carriere. Come effetto derivato è esploso pure quello di Amara, Davigo e loggia Ungheria, ma adesso tutto questo sta esplodendo anche nell'esercizio della giurisdizione, con due casi limite di opposto segno, quello a Stresa con la caduta della cabina della funivia che ha provocato 14 morti e quello a Taranto con la sentenza Ilva. Ora, a Stresa la si può girare come si vuole, ma siamo di fronte a un dato incontrovertibile: 14 persone sono morte perché la corda fondamentale si è rotta e perché i freni di riserva erano bloccati. Poi si può discutere all'infinito sull'influenza reciproca su questi due elementi, ma quello che è avvenuto è incontrovertibile, e allora vanno accertate le responsabilità riguardanti sia la gestione, sia il controllo. Tutto ciò sembra ovvio e invece a quanto sembra non lo è. Se Dio vuole, a Taranto, invece, la prima sentenza sull'Ilva è fondata su una impostazione di segno opposto. Chiunque gestisce quegli impianti che comportano tossicità è un criminale che va incarcerato per almeno 20 anni e ciò riguarda anche chi li ha acquistati dallo Stato, visto che si tratta di un'azienda che risale addirittura agli anni '60, e anche se chi li ha acquistati ha posto in essere investimenti volti a ridurre gradualmente l'inquinamento. È come se, a suo tempo, Marx e Engels, una volta scritto il Manifesto dei comunisti, fossero stati dotati in Germania di pieni poteri da esercitare sulla base delle loro analisi: gli sfruttatori, cioè i capitalisti, avrebbero dovuto essere automaticamente espropriati e associati alle locali carceri. A Taranto è entrata in azione non una Corte di giustizia, ma un tribunale del popolo che ha erogato pene funzionali alla chiusura della fabbrica. In più, per non farsi mancare nulla, il tribunale del popolo ha anche condannato per concussione implicita (dizione incredibile) l'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, sia perché non poteva mancare una botta al potere politico, anche se Vendola è stato sempre portatore di una contestazione ambientalistica nei confronti dell'azienda. È evidente che le implicazioni di queste sentenze hanno un impatto devastante. Può darsi che l'Italia debba rinunciare alla produzione di acciaio. Ecco quindi che l'implosione della magistratura non si limita alla sua dialettica interna, che è già cosa molto rilevante, ma ha ricadute esplosive anche sull'esercizio della giustizia, ricadute, come si vede, assolutamente imprevedibili e di opposto segno. Giustizia e magistratura sono arrivate a un punto tale di crisi che la consapevolezza della gravità della situazione sta facendosi strada anche in chi, in fasi diverse, ha cavalcato il giustizialismo. Ci riferiamo alle due lettere inviate al Foglio prima da Di Maio e poi da Bettini. A nostro avviso entrambe vanno colte positivamente, senza fare processi alle intenzioni, ma anche senza farsi prendere per i fondelli. Non a caso abbiamo parlato di fasi diverse. Il Pds, passata una prima fase di incertezza («Mani Pulite colpirà anche noi, visto che, sia pure a modo nostro, anche noi siamo nel sistema di Tangentopoli?»), i ragazzi di Berlinguer senza eccezione alcuna (vero Veltroni, allora direttore dell'Unità?) diversamente dai miglioristi cavalcarono il giustizialismo prima contro Craxi e la destra della Dc, poi contro Berlusconi. Successivamente, però, sono stati colpiti anche loro. Non a caso Bettini fa un elenco di vittime costituite da ex Pci perseguite, sputtanate (senza alcuna difesa da parte del partito) e poi assolti (Bassolino, Penati e Vendola di Rifondazione): fuori di quel perimetro egli cita solo la Raggi e Alemanno, forse come estremo omaggio al «modello Roma». Neanche un accenno autocritico alle monetine del Raphael. Quanto a Di Maio è partito da Uggetti per fare un discorso generale. A questo punto però si aprono quelle che a suo tempo Mao chiamò le contraddizioni del popolo. A parte Di Battista e Barbara Lezzi, a Di Maio ha risposto addirittura Conte, all'insegna del recupero del giustizialismo originario. Paradossalmente però la risposta di Conte mette anche in evidenza che si è rotta un'alleanza che sarebbe dovuta essere strategica, quella tra Conte e Bettini. Se Dio vuole, però, è ancora peggiore la risposta di Enrico Lena a Bettini. La sua distinzione fra giustizialisti e impuniti[1]sti è leggermente disgustosa e dimostra che al fondo permane la subaltemità alla parte peggiore della magistratura da parte del cuore del Pd. Meglio allora che tutti i garantisti (è una categoria dello spirito, caro Enrico Letta) di sinistra, di centro e di destra convergano sui referendum radicali che bucano tutti gli schieramenti tradizionali.”
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