Intervista esclusiva di Antonello Sette per #SprayNews a #GiancarloLima, avvocato, difensore delle vittime di atti violenti
“Per lo Stato italiano la vita umana vale solo venticinquemila euro. Un’ingiustizia e una vergogna, contro cui dovremmo combattere tutti”
Avvocato, lo studio legale Lima Zega E Partners si occupa di successioni, diritto di famiglia, consulenze immobiliari e molto altro. Tutte cose importanti, ma le chiedo di quello che più mi interessa. Della sua attività, a tutela delle vittime della violenza. Per lei è diventata quasi una missione?
Non sopporto le ingiustizie. Fa parte del mio Dna. Mi sono imbattuto in un mondo poco conosciuto, dove l’#ingiustizia regna sovrana. Sto dedicando la mia vita, professionale e umana, al risarcimento delle vittime di atti violenti, regolato da una norma europea, che l’Italia ha recepito solo nel 2016, ma con modalità vergognose.
In che cosa consiste la “vergogna” italiana?
Innanzi tutto, negli anni trascorsi nell’inerzia assoluta. E poi, quando finalmente, dopo tredici anni, si è deciso di provare ad adeguarsi alla direttiva europea, nell’entità, risibile e offensiva, del risarcimento previsto. Le donne e gli uomini, che lo #Stato italiano dovrebbe tutelare, come ci chiede l’Europa, sono le #vittime di omicidi, lesioni gravissime e violenze sessuali. Lo Stato deve procedere, in solido e direttamente, al #risarcimento, quando l’autore del reato non è in grado, e accade nella stragrande maggioranza dei casi, di provvedere in proprio. L’Italia non ha solo accumulato un ritardo di tredici anni, ma ha iniziato con la previsione di un risarcimento di quattromila e ottocento euro, elevabile a settemila e seicento, solo in caso di morte.
Un’elemosina?
Anche per la Corte di #Cassazione, che ha rimandato gli atti alla Corte di #Giustizia Europea, non risparmiando allo Stato italiano accuse esplicite e pesanti per aver stabilito cifre vergognose e umilianti.
C’è stato un ripensamento? L’entità del risarcimento è ora adeguata?
La condanna della Corte di Giustizia Europea ha costretto l’Italia a rivedere i parametri, ma la vergogna è stata solo attenuata, non sanata. Se lei pensa che il limite attuale è di venticinquemila euro, spese legali a parte. Se non è ancora un’elemosina, ci si avvicina. Per lo Stato italiano la vita umana vale al massimo venticinquemila euro, neppure un centesimo di più.
Cifre indegne per uno Stato, che si professa civile. Qualcosa si muove per ristabilire un minimo di giustizia?
La Corte di Cassazione, proprio qualche giorno fa, ha condannato, sulla base dei vari pronunciamenti europei, regolarmente disattesi dall’Italia, l’autore di una violenza sessuale a un risarcimento superiore alla soglia massima dei venticinquemila euro.
Ci racconta un caso, particolarmente doloroso, di cui si è occupato mettendoci, se possibile, più che in altri, il cuore?
Seguo da anni le peripezie giudiziarie e il dramma umano di Filomena #DiGennaro, ridotta in fin di vita dall’ex fidanzato, che nel 2006 le sparò due colpi di pistola perché lei l’aveva lasciato. #Filomena vive, da allora, su una sedia a rotelle e combatte, insieme a me, perché le sia resa un po’ di giustizia. Finalmente. Stava facendo l’allieva maresciallo dei carabinieri. L’Arma ha deciso di non destinarla ad altre funzioni, compatibili con la sua condizione, e l’ha licenziata. Abbiamo iniziato la nostra battaglia. L’ex fidanzato, che l’aveva ferita quasi a morte, al grido di “o mia o di nessun altro”, è uscito dal carcere dopo un solo anno. Abbiamo ottenuto la sua condanna a un risarcimento di due milioni e mezzo di euro. Lui, però, non ha niente, neppure un reddito per sostentarsi. Abbiamo, allora, iniziato una causa contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, contestandole il mancato adeguamento ai criteri stabiliti dalla normativa europea e offrendo, in via preliminare, la riduzione del cinquanta per cento del risarcimento, a cui avremmo avuto diritto.
Anche a Filomena Di Gennaro spetterebbe, allo stato degli atti, un risarcimento massimo di venticinquemila euro e neppure un centesimo di più?
Purtroppo sì e abbiamo avanzato, in questo senso, anche una domanda alla Prefettura, pro forma naturalmente, perché lei capisce bene di che cosa stiamo parlando. Di una donna, costretta su una sedia a rotelle per tutta il resto della sua vita, che si dovrebbe accontentare di un cifra, equivalente, al massimo, alla retribuzione di un anno di lavoro. La recentissima sentenza della Cassazione apre uno squarcio di speranza in un cielo sin qui tenebroso e segna, forse, una svolta definitiva da un’epoca a un’altra. Dall’epoca della vergogna e delle elemosine a quella di un risarcimento equo e adeguato. Che non potrà colmare le ferite, anche devastanti, inflitte alla vittima, nel corpo e nell’anima, ma almeno ricompensarla con una riparazione, che non è solo economica, ma anche, se non soprattutto, morale.
Ci vuole professionalità, ma anche la capacità di controllare i propri sentimenti e la propria rabbia, di fronte a un’ingiustizia così palesemente insopportabile?
A me, poi, capita, come nel caso di Filomena, di immedesimarmi nella condizione, in cui versa ed è costretto a vivere il mio cliente. Mentre la pronuncio, sento che non è una parola adeguata. Filomena non è una cliente, ma una donna ferita che mi ha chiesto aiuto. E che avrà un po’ di pace, solo quando avrà ottenuto la giustizia. Che pretende e che le spetta. Ho preso a cuore una speranza. Gratuitamente, come è giusto che sia, visto che non può permettersi di pagare una parcella, anche minima. Dovessimo vincere la nostra battaglia, Filomena, ha già deciso di investire una cospicua parte del risarcimento in una struttura, una casa, che possa essere di conforto e aiuto per chi ha subito il danno indelebile di una violenza grave. Per me, sarebbero una soddisfazione professionale e, soprattutto, una gioia talmente grandi, da non avere prezzo. Mi sentirei un #avvocato appagato e felice.
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