Nei prossimi giorni, intervisterò in esclusiva Giuseppina Campioni, la mamma del 19enne Matteo Iozzi, morto tragicamente mentre in comunità per curare l'obesità. Nel frattempo, vi presentiamo il caso, già stato a Chi l'ha visto?, attraverso una lettera che abbiamo appena ricevuto dai suoi legali per la diffusione. - Umberto Baccolo
LA LETTERA DEI LEGALI DELLA FAMIGLIA IOZZI
Matteo Iozzi era partito il 9 di giugno del 2016 alla volta della Comunità della Papa Giovanni XXIII di Longiano, per inserirsi all’interno di questa struttura, e superare i problemi di depressione che lo avevano afflitto nell’arco della sua giovane vita e recuperare una forma fisica adeguata per poter presto partire in missioni benefiche e diventare un Casco Bianco.
Da almeno 2 anni insieme ai propri genitori, già componenti della Papa Giovanni XXIII, Matteo si era determinato a dare una svolta alla propria vita, gettandosi il passato alle spalle, desideroso di guarire dalla depressione che lo aveva per così tanto tempo turbato, causata dal fatto che tra i 5 e gli 11 anni di età, era stato vittima di atti di bullismo, da ragazzini più grandi di lui.
Matteo era partito con l'intenzione di non essere un peso ma una risorsa per poi fare parte di Operazione Colomba (c.d. caschi bianchi), una branca della Papa Giovanni XXIII (oggi i ragazzi che ne fanno parte sono impegnati in favore della popolazione ucraina per servizi umanitari).
Matteo voleva aiutare gli ultimi e, con i suoi genitori, progettava di aprire una casa famiglia. Stava seguendo le orme dei genitori, da sempre impegnati attivamente nelle missioni umanitarie e di volontariato.
Ha vissuto e toccato con mano le varie realtà in prima persona seguendo i genitori ancora come P.V.V. (in prova vocazionale) nei vari incontri che la Papa Giovanni XXIII organizzava con la partecipazione di altri ragazzi che avrebbero voluto fare la stessa esperienza.
Matteo, si volle inserire spontaneamente all’interno della Comunità di Balignano in provincia di Cesena, perché voleva emanciparsi dai genitori e desiderava poter essere preparato alle missioni da operatori diversi dai propri genitori. Desiderava, a tutti i costi finito il periodo, essere autosufficiente e capace di seguire le regole che la vita gli imponeva per essere una persona matura e responsabile.
Quel 13 Luglio 2016 Matteo Iozzi, di soli 19 anni, è morto in Comunità abbandonato a sè stesso, malgrado la presenza degli operatori che avrebbero dovuto proteggerlo e soccorrerlo adeguatamente e nonostante l’intervento del medico curante della Comunità, che ebbe a visitarlo il giorno prima della sua morte.
Matteo era seguito da degli specialisti, sia per delle cure di supporto di natura neuropsichiatrica che correlate alla sindrome metabolica collegata all’ obesità severa, di cui soffriva, per tale motivo assumeva una terapia multi farmacologica, ma poteva salvarsi.
Ciò è quanto sostiene il consulente medico di parte, Dott. Franco Zuppichini, il quale ritiene che ove si fossero disposti anche dei semplici esami del sangue per rilevare la grave acidosi e disidratazione che Matteo lamentava già da almeno una settimana prima del suo decesso, e si fosse dato immediato soccorso a Matteo anche pochi minuti prima della sua morte, di certo Matteo di sarebbe salvato.
Le deduzioni medico-legali del Dott. Zuppichini, sono state depositate agli atti del fascicolo aperto presso la Procura di Forlì, unitamente ad una recente memoria difensiva nell’interesse della Sig.ra Giuseppina Campioni (mamma di Matteo Iozzi), rappresentata dall’Avv. Carmelita Morreale del Foro di Palermo, in forza delle quali si chiede alla magistratura inquirente di voler approfondire i temi di indagine in merito alle presunte responsabilità attribuibili al personale medico e agli operatori che avrebbero dovuto tutelare la vita di Matteo, ciascuno per il proprio ambito di competenza.
Per quanto riferito da alcuni testimoni, una settimana prima di morire, Matteo chiedeva insistentemente aiuto agli operatori e, invece, fu costretto a patire un vero e proprio calvario, perché costoro non cedettero alle sofferenze del giovane. Difatti, gli operatori pensarono che si trattasse di una farsa da parte di Matteo, per sottrarsi allo svolgimento delle attività interne che gli venivano assegnate. Per quanto riferito dai testimoni, Matteo fu schernito e maltrattato più volte, sia quando ebbe a chiedere di telefonare ai genitori, sia quando ebbe a chiedere dei calmanti per i dolori lancinanti che aveva in tutto il corpo, a tal punto che non riusciva a respirare bene e camminare. Gli vennero negati sia i contatti con la famiglia che gli antidolorifici. I genitori erano all'oscuro del suo stato di salute, e vennero informati unicamente della morte di Matteo con una tragica telefonata degli operatori, delle ore 12:20 dello stesso 13 luglio 2016 in occasione della quale fu loro lapidariamente detto: << Matteo non c'è più è morto>>.
I testimoni hanno riferito che benché lui non stesse bene e chiedesse aiuto, lo facevano lavorare sotto il sole cocente e fino a un giorno o due prima di morire, lo avevano messo a lavorare in cucina a tagliare la frutta e la verdura, imponendogli i ritmi di lavoro di tutti coloro che erano ospiti della Comunità. Matteo in quei giorni soffriva di una severa astenia, ma soprattutto gli sono mancati i sali minerali che piano, piano gli si esaurivano nel sangue scompensando le parti vitali, in primo luogo il cuore, i reni e il cervello, infatti nei tre giorni prima di morire si aggravò il suo quadro clinico per la massiccia perdita di liquidi, in quanto vomitava di continuo. I farmaci che assumeva per i pregressi problemi di salute (topiramato – metformina) e lo stress fisico dovuto al caldo hanno causato, quindi, un gravissimo scompenso a livello idroelettrolitico che lo ha condotto tragicamente alla morte.
Gli operatori della comunità, il pomeriggio antecedente alla sua morte, lo portarono presso lo studio medico della dottoressa che seguiva gli ospiti della Comunità, tra l’altro lei stessa era membro della Papa Giovanni XXIII. La dottoressa visitò Matteo, dicendo all’operatore che accompagnò Matteo che si trattava di una lieve disidratazione e gli prescrisse verbalmente, senza una ricetta medica, solo degli integratori da banco, (Enterelle), sali minerali da assumere per via orale ( benché lui vomitasse di continuo) e al bisogno del Plasil, da somministrare per intramuscolo.
Nonostante lo avesse visto solo 2 volte e non lo conoscesse bene, (almeno così ha dichiarato agli inquirenti), tenuto conto del fatto che Matteo assumeva dei farmaci sia per le problematiche neuropsichiatriche che correlate alla sindrome metabolica, avrebbe, invece, dovuto sottoporlo anche ad un semplice esame del sangue, e lì di certo, sarebbe stata riscontrata l'acidosi e lo scompenso degli elettroliti. Bastava qualche flebo per farlo rinvenire e salvarlo, visto che il vomito e la mancata alimentazione risalente già ad alcuni giorni prima della sua morte, lo avevano terribilmente indebolito.
Dalle osservazioni elaborate dal consulente di parte, Dott. Zuppichini , è emersa una circostanza gravissima che l’Avv. Morreale ha ritenuto doveroso sottoporre al vaglio degli inquirenti. Difatti, si è rilevato che in esito all'autopsia effettuata il 19 luglio 2016, il medico legale nominato dalla Procura di Forlì, Dottor Tudini aveva riscontrato nel test rapido delle urine di Matteo, una positività alle benzodiazepine (Sedativi), che però non erano state mai prescritte da nessun medico (né per le terapie che Matteo assumeva prima di entrare in comunità, né per altre eventuali prescrizioni disposte successivamente).
Si è chiesto espressamente, quindi, alla magistratura di accertare come mai vi fosse traccia di benzodiazepine, nelle urine di Matteo. Ciò significava, difatti, che tali sostanze erano state già metabolizzate dai reni, per essere presenti nelle urine. Quindi, Matteo doveva aver assunto tali sostanze delle ore prima al suo decesso e ciò può aver contribuito in modo determinante a renderlo ancora più intorpidito ed incapace di avere delle reazioni vigili al suo malessere fisico, tanto che l’arresto cardiocircolatorio di Matteo, consegue al verosimile soffocamento del giovane causato dal vomito che lo affliggeva.
Forse gli saranno state somministrate delle benzodiazepine per calmarlo? Visto che Matteo era molto nervoso a causa del forte malessere fisico che lamentava. I sedativi, sono di certo dei farmaci usati all’interno della Comunità, per gli ex tossico dipendenti, ma vengono somministrati su prescrizione medica, mentre, per Matteo non vi era alcuna indicazione terapeutica in tal senso.
La notte tra il 12 e il 13 di luglio 2016, per quanto ha raccontato dal suo compagno di stanza, Matteo era in confusione e in stato di agitazione e si trascinava avanti e indietro per andare in bagno, accendeva e spegneva la luce della camera, accendeva e spegneva il ventilatore e forse per questo motivo qualcuno ha ritenuto opportuno somministrare un calmante, ma nessuno ha dato l'allarme del suo stato, tutti dormivano e gli operatori anziché dargli soccorso, non se ne sono occupati se non quando hanno tentato di rianimarlo, ma Matteo era già morto, non respirava più aveva gli occhi fissi e la bocca aperta .
Più nel dettaglio, i testimoni raccontano che la mattina del 13 di luglio 2016 , Matteo poco prima di morire storceva gli occhi, faceva fatica a parlare si era aggravato prima neurologicamente e poi il cuore si è fermato per sempre.
A seguito dell’intervento del 118, i medici provarono a rianimarlo per ben 20 minuti e di iniettargli una flebo, ma le vene per ben tre volte non filtravano perché Matteo ormai era morto già da tempo, ancora prima che arrivassero i soccorsi del 118, difatti, il suo sangue non era più fluido.
Eppure bastava accudirlo, invece, fu abbandonato a sé stesso. Infatti tutti gli altri ospiti ed operatori della comunità, mentre lui moriva, erano al piano di sotto, chi in ufficio, chi faceva colazione, chi svolgeva il proprio dovere altrove ...
Matteo si sarebbe salvato, se avesse ricevuto soccorso anche pochi minuti prima che lui morisse, sarebbe stato sufficiente che non soffocasse con il suo stesso vomito e che il suo sangue circolasse ancora per reidratarlo …. di acidosi non si muore, ma di menefreghismo si!
I genitori non vogliono assolutamente fare di tutta l'erba un fascio, anzi, riconoscono che nell’ambito della Comunità Papa Giovanni XXIII ci sono famiglie stupende che spendono la loro vita per accudire le pietre scartate, come diceva il fondatore Don Benzi, che la famiglia Iozzi conobbe personalmente, più di 25 anni fa . Quello che i Signori Iozzi vogliono è che non ci sia, mai più un altro Matteo che viva quello stesso dramma.
E’ giusto che i responsabili del decesso di Matteo, per le responsabilità mediche e di omessa vigilanza e soccorso nei confronti del giovane, vengano individuati ed allontanati.
Sono ben 5 anni che i genitori di Matteo, non ricevono neanche una telefonata di conforto per alleviare il loro dolore straziante, peggio di una condanna all’ergastolo.
Un silenzio davvero insopportabile. La madre di Matteo si è dichiarata pronta a perdonare chi ha sbagliato, ma desidera conoscere la verità sulla morte del figlio.
Il 16 di febbraio del 2017 il caso di Matteo Iozzi fu archiviato e da quel giorno più nulla, anche da parte degli stessi operatori della Comunità che sostenevano, di non abbandonare mai chi ha bisogno e di essere sempre disponibili anche con una carezza, un abbraccio.
La famiglia Iozzi, grazie alla difesa del proprio legale e dei consulenti di parte, si batterà per una rapida conclusione delle indagini nuovamente riaperte sul caso, per far emergere le responsabilità connesse all’omicidio colposo di Matteo e finalmente avviare dinanzi l’autorità giudiziaria competente, un processo a carico di tutti i soggetti astrattamente responsabili, senza ulteriori indugi.
Mamma e Papà Iozzi chiedono a gran voce, Giustizia e Verità per Matteo!
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