Giuseppe Musca, classe 1950, nato a Palermo e vissuto a Ravenna, in un’intervista esclusiva rilasciata a Spraynews, presenta “Quel pasticciaccio brutto de Viale Falcone”, libro edito da Male, in cui raccontando la sua esperienza personale, che lo condotto ingiustamente in carcere, denuncia quello che definisce «lo strapotere delle Procure».
Come mai solo adesso ha deciso di raccontare le storture della giustizia, di cui purtroppo è stata vittima?
«Ho deciso solo ora perché ho atteso il deposito delle motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Bologna, che ha stravolto quella di primo grado. Ho raccolto, poi, tutte le carte e ho deciso di fare questo pamphlet che denuncia gli eccessi, gli abusi, le distorsioni del diritto».
“Quel pasticciaccio brutto de Viale Falcone”. Come nasce l’idea di questo titolo e da quale scrittore ha preso spunto?
«Mi ispiro dalla vicenda raccontata da Gadda, che non a caso finisce con il cambiamento del colpevole».
Viale Falcone come via Merulana?
«Esatto. Viale Falcone è la strada dove c’è il tribunale di Ravenna. Il mio lavoro ha una sorte di similitudine con quello di Gadda, nella lungaggine, nell’intreccio della vicenda e nella concludenza dell’indagine. Pur avendo trovato un’assonanza molto vaga, non essendoci elementi di contatto concreti ed effettivi, ho voluto effettuare un richiamo letterario per non fare un titolo che fosse comune».
Perché il suo lavoro, oggi più che mai, può ritenersi attuale?
«L’intreccio innaturale e anche nel limite della legalità tra Pubblici Ministeri, Gip e alcuni giudici monocratici viene ormai denunciato ovunque. Sono vicende che si moltiplicano in Italia, come raccontato da giornali come il Riformista, il Dubbio e tanti altri. La mia vicenda personale, purtroppo, rientra nelle manifestazioni di malagiustizia che ogni giorno vengono denunciate».
Quale messaggio intende lanciare a chi è stato vittima di errori della magistratura?
«Un messaggio di resistenza. Bisogna non lasciarsi schiacciare dagli abusi peggiori, come quello ho subito io, ovvero quando arrestarono tutta la mia famiglia. Hanno trattenuto me più di un anno in carcere, mio figlio quasi un anno e mia moglie oltre un anno, distruggendo tutte le nostre attività, sequestrando l’albergo di proprietà, che ci è stato restituito solo dopo due anni. Nonostante tutto ciò, non ci siamo fatti schiacciare. Non abbiamo ceduto al ricatto di un patteggiamento pur di uscire dal carcere. Non abbiamo accettato di piegarci. Abbiamo resistito, affrontando un processo di primo grado e avendo avuto fiducia nell’appello che poi, come si è visto, ci ha dato ragione. Non bisogna mai arrendersi e andare avanti quando si ritiene che nel primo grado non si abbia avuto un processo giusto».
Ritiene ancora possibile cambiare tale “sistema”?
«E’ stupefacente che la classe politica abbia consentito alla magistratura, fattispecie alle Procure, di costituirsi corpo separato e dominante. La speranza è che moltiplicandosi vicende, come la mia e denunciandole pubblicamente, si prenda sensibilità della gravità del degrado di alcuni aspetti della giustizia. Non voglio generalizzare perché in Corte d’Appello e in Cassazione i giudizi menomale si stravolgono. Arrivati a quel punto, però, ci sono persone e intere famiglie che hanno già sopportato anni e anni di sofferenze, che nella maggior parte dei casi rovinano la vita. Possiamo solo sperare che col tempo ci sia separazione tra le carriere e che i giudici siano finalmente terzi tra la difesa e l’accusa e non siano schierati sistematicamente con quest’ultima, ci siano dei gip che facciano da filtro e non asserviti alle Procure. Basta vedere l’episodio del Mottarone, dove il Gip che non ha accettato quanto sostenuto dal Pm è stato rimosso dall’incarico. I giudici di primo grado sono troppo condizionati dal potere e dall’aggressività delle Procure, come è stato nel mio caso, dove il Gip ha addirittura emesso un decreto immediato senza aver letto neanche gli atti».
Si avvicinano le amministrative a Ravenna, mi dia un suo giudizio sull’attuale candidata Verlicchi alla fascia tricolore?
«E’ sicuramente espressione di una cultura garantista, laica e fuori dalle questioni di potere cittadino. Ravenna, infatti, è una città nella quale si è formato un sistema tra il Partito Comunista di allora, poi il Pd e una serie di interessi locali. C’è insomma un intreccio incestuoso. La Verlicchi è l’elemento di rottura con un regime. Sono certo che le persone che realmente hanno a cuore le sorti della nostra città e che credono in un rinnovamento alla fine prevarranno».
Di Edoardo Sirignano
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