Intervenire sulle cosiddette “finestre” vale a dire sul tempo che deve trascorrere dalla prima proiezione in sala di un film alla sua uscita in televisione, è come chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati, o detto diversamente, affrontare il problema dalla fine e non dall’inizio.
Il ministro Franceschini riconferma anche questa volta la sua caratteristica, occuparsi di politica e di comunicazione e non di soluzione di problemi tecnici, che come noto non lo interessano minimamente nonostante la quota di ricavi dei film italiani sia scesa all’11%, percentuale mai raggiunta prima d’ora.
Premesso che le “finestre” riguardano solo i film italiani che hanno ricevuto sostegno dallo Stato, e pertanto non i film internazionali dotati di autonomia, è fin troppo ovvio che modificare i giorni da 105 a 90, confermando le eccezioni, non serve a nulla, se non a far vedere che qualcuno si occupa di qualcosa.
La stessa Universal dichiara che dopo un mese di programmazione nelle sale, il risultato cambia poco e tutti ormai sanno, tranne quelli che fanno finta di non sapere, che per le uscite in sala esiste un meccanismo delinquenziale che consente alterazioni della programmazione in cambio di denaro, giustificato da contratti irreali di comarketing.
Ma come è possibile invertire la fase di decadenza del nostro cinema?
Innanzitutto ripartendo dall’inizio, cioè dal film, che è composto nella sua essenza da soggetto e sceneggiatura, e da un imprenditore definito produttore. Quest’ultimo non può essere un burocrate, e pertanto vanno eliminati dal tavolo coloro che non rischiano in proprio, ma che giocano con i soldi altrui, delle reti, della Rai, delle aziende pubbliche e private che gestiscono i mezzi di trasmissione.
Vanno di conseguenza eliminate le posizioni di privilegio in favore di una sana espressione di professionalità.
Il tax credit interno, (visto che quello esterno non viene più usato da quando non sono più possibili specifici imbrogli), non può essere il motivo per produrre un film.
Anche volendo accettare la tesi che il cinema vada sorretto, la percentuale di tax credit per i film destinati alla sala non può essere superiore al 20%, in modo da smascherare il mistero per il quale gli incassi scompaiono e le produzioni aumentano.
Il produttore deve pertanto essere un imprenditore che sa scegliere il prodotto, che sia capace di rischiare e sappia dove e come trovare le coperture o i ricavi per un film realmente interessante.
Le serie televisive non devono ricevere il tax credit, questo è un elemento fondamentale, perché i produttori televisivi, cioè quelli che hanno un rapporto simbiotico o politico con i burocrati televisivi, o si sono già comprati lo yacht, o si sono già comprati l’attico, mentre le reti, compresa la Rai, non hanno bisogno di essere ulteriormente agevolate.
I produttori cinematografici veri hanno poi bisogno di un distributore, e questa figura va nuovamente valorizzata, perché una cosa è produrre, un’altra è distribuire, attività che richiede conoscenza del territorio, dei meccanismi di marketing e sensibilità commerciale.
Vanno pertanto condannate, senza ulteriore condono, le pratiche estorsive per moltiplicare gli schermi, riportando la situazione al reale valore del prodotto.
Le reti devono smettere di produrre quello che i loro burocrati, divenuti nel frattempo tycoon con il nome nei titoli, decidono di realizzare e devono obbligatoriamente e imparzialmente acquisire i diritti di sfruttamento televisivo secondo criteri oggettivi, dando ai produttori quelle certezze di cui pur un prodotto aleatorio ha bisogno.
Sky infatti aveva cominciato ad acquisire con un criterio democratico legato agli ingressi in sala, prima che Anica decidesse di riservare tale privilegio ai soli vertici.
I distributori esteri devono tornare ad esistere, evitando che l’Italia sia l’unico paese europeo a non esportare nulla. Le decisioni produttive devono essere prese collegialmente con il distributore nazionale ed estero, aggiungendo anche l’inevitabile presenza di una piattaforma se ritenuta utile. Devono infine essere depotenziati i figli di papà, i raccomandati, gli amministratori genetici, gli attori che il pubblico rifiuta, i cerchi magici, le amanti.
Bisogna impedire che gruppi finanziari esteri acquisiscano le quote di società nazionali accreditate in Rai o altrove, rendendo di fatto il nostro paese un protettorato francese, americano, cinese, per esempio eliminando qualsiasi forma di contributo statale. Basterebbe fare riferimento ad un elemento semplice, la reciprocità, per giustificare la difesa del territorio.
Infine, lo dico per puro tuzionismo, deve essere ripristinato il rispetto delle persone, del loro valore, della loro professionalità, delle loro capacità.
Il cinema può essere cultura, ma anche intrattenimento, ma anche impresa, ma anche lavoro, non uno strumento di potere fine a se stesso.
di Michele Lo Foco
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