Cosa hanno in comune due clochard, un sottosegretario, un debito di oltre 12 miliardi e la cacciata dei nazi fascisti dalla capitale? Tutto e nulla, a quanto pare. Nulla, a ragionare secondo logica e razionalità; tutto, se il campo di esistenza è quello della politica e manca un mese alle elezioni.
Cos'è del resto la comunicazione politica, se non l'arte di ragionare e collegare fatti altrimenti non accostabili tra loro; cosa, se non la visione di segmenti e direttrici invisibili agli altri, ma che intersecati danno forma e sostanza a un concetto, a una visione. Non è forse questo proselitismo l'arte di portare le menti e le coscienze dove le si vuole, l'attenta disciplina del battere la lingua dove il dente duole, se il molare in questione è quello dell'avversario di turno?
In questo anno scarso di governo ci siamo abituati alla sublimazione del dualismo quale metafora di vita, così radicato in questa maggioranza da caratterizzarne ogni sua sfaccettatura: una coesistenza, che è sempre stata nulla più che coabitazione di uno stesso spazio, una spartizione dei doveri e dei limiti regolata da un Contratto a cui si è finiti per andare in deroga tutte le volte che gli eventi lo richiedevano. Un governo che è allo stesso tempo maggioranza e opposizioni di sé, in una campagna elettorale senza precedenti, durata un anno e che si appresta a culminare nel mese scarso che ci separa dalle elezioni Europee. Una creatura deforme e destinata a morte prematura, per qualcuno; una malefica quanto geniale conduzione dei giochi, per qualcun altro, che ha fatto fuori dalla scena le voci esterne alla maggioranza, lasciando spazio, nel bene e nel male, soltanto per i due attori principali dell'esperienza gialloverde. E ora, che di questo diabolico disegno o malriuscito esperimento, siamo alle fasi che contano, c'è chi si aspetta il colpo di scena finale, che coinciderebbe con un divorzio anzitempo e un repentino ritorno alle elezioni con un Salvini nelle vesti di patriarca del centrodestra (o centro destradestra) e un Di Maio in versione incudine, magari tentato dall'ipotesi di dialogare con quel Pd in cerca di sé da ormai troppo tempo. Quel che appare certo, invece, è che l'inasprirsi dei rapporti tra Lega e 5 Stelle dal dopo batoste elettorali (in sede regionale) subite dai grillini, coincide con l'avvicinarsi della tornata europea e con la pratica selvaggia dell'accalappiare consensi dell'ultima ora, costi quel che costi, senza evidenti remore nei confronti della responsabilità che si ha di fronte a un Paese con un bisogno disperato di essere governato.
Ed ecco, allora, che fatti altrimenti non assimilabili tra loro assumono i contorni di un disegno, dell'attacco mirato: da un litigio tra due barboni alla stazione Termini di Roma, sfociato nell'accoltellamento di uno con indosso una croce cattolica per mano dell'altro, un marocchino di religione islamica, il tutto alla vigilia di Pasqua, si può facilmente arrivare al dramma dell'immigrazione, senza magari lasciarsi sfuggire la stoccata al titolare del Viminale sul capitolo riservato al sistema dei rimpatri che non sembra proprio oliatissimo. E il titolare in questione, magari, potrebbe spedire una lettera a questori e prefetti chiedendo di stringere ulteriormente il cerchio attorno alle comunità islamiche, per prevenire episodi simili. Siamo nel campo della retorica più pura, della propaganda più spietata e selvaggia. Un sistema a cui non può certo sfuggire il sottosegretario Armando Siri, finito alla ribalta delle cronache per un avviso di garanzia in una vicenda in cui la parola mafia riecheggia sinistramente. Linciato immediatamente da avversari e presunti amici che gli hanno immediatamente tolto deleghe e legittimazione (il Siri in questione ha però le spalle larghe, oltre che coperte, e sembra a suo agio con le vicende giudiziarie, dopo un patteggiamento per bancarotta fraudolenta), il consulente economico di Salvini ha trovato nel suo dominus una figura leale e che farebbe saltare il tavolo piuttosto che disfarsi di lui e delle sue grane processuali. Anche questa vicenda è stata ben strumentalizzata, tra chi ne fa una questione di etica e morale, a prescindere dalle sentenze della magistratura e chi si riscopre garantista coi suoi e Robespierre con i restanti. Poi ci sono i soldi e quelli, per loro natura così abituati a passare di mano in mano, si prestano alle speculazioni di ogni genere. Se sono 12 miliardi di euro, poi, costruirci sopra è ancora più facile: che sia un Salva Roma, un Salva Italia o un salvadanaio, la questione della ridiscussione del debito della Capitale e della rottamazione dell'apparato commissariale a cui è sottoposto, è divenuta la spina nel fianco dei grillini e il cavallo in assetto da guerra per l'ala leghista. O per tutti o per nessuno! Avrebbe tuonato Salvini, per cui quella del debito romano è una vicenda oscura che rischia di creare favoritismi e i famosi cittadini di A e B. Non suona affatto strano che il ministro se ne sia ricordato solo ora, quando il discorso poteva essere sviscerato già in sede di stipulazione del Contratto, in tempi non sospetti, ma, temiamo, poco remunerativi in fatto di consenso. Dall'altro lato della medaglia, quella gialla, invece, il provvedimento dovrebbe essere una panacea di tutti i mali che l'acciaccata Roma si porta in dote da ormai troppi decenni di malgoverno: anche in questo caso la bacchetta magica che dovrebbe far sparire un buco di miliardi e miliardi, con risparmi per tutti e arcobaleni annessi, suona un po' come una sviolinata all'amante da sedurre (e abbandonare).
E il 25 aprile? La festa della Liberazione si presta a slanci di retorica (negazionista e non) come e più di altre commemorazioni storiche, eppure, dato il suo evidente significato di repulsione dei fascismi e annessi dalla Repubblica, ci saremmo aspettati meno attenzione da due forze di governo che se non altro sono accomunate dalla certezza che, nel ventunesimo secolo, parlare di fascismi e dittature suoni un po' anacronistico. E invece, puntuale, la polemica è sbocciata anche qui: per Di Maio, sulla scia delle accuse alla Lega per la massiccia partecipazione dei suoi esponenti al Family "weekend" di Verona, chi non lo riconosce «era a Verona con gli antiabortisti». Dal canto suo la Lega risponde confermando l'assenza dei suoi rappresentanti da tutte le celebrazioni della giornata, confermando il dilemma esistenziale di Nanni Moretti del "Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?".
Numeri: in fin dei conti tutto si riduce ai freddi, rigidi, ragionati numeri. La realtà, l'esistenza stessa, piegate in nome del consenso, oltre ogni apparente logica, oltre ogni necessaria razionalità. Perché, come ci ricordano i giorni tra i banchi di scuola, i numeri, oltre che incontrovertibili, sanno essere irrazionali.
di Alessandro Leproux
Comments