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Al Colle “allarme rosso” sullo spread, la manovra economica fa paura ma andare al voto è a rischio



Al Colle, ogni giorno, si scorrono le agenzie di stampa e, insieme, l’andamento dei mercati. Un occhio all’ennesima polemica tra Lega e 5Stelle, un occhio ai titoli di Borsa e, soprattutto, allo spread, cioè il differenziale tra il rendimento dei Btp italiani dai Bund tedeschi. “Siamo abituati, ormai, a ritenere i 250/260 punti base – dice chi, al Quirinale, si intende di economia - come un dato fisiologico, ma la fisiologia sarebbe intorno ai 160/170 punti base”, cioè la percentuale che aveva il governo Renzi. Se lo spread schizza, poi, come ieri ai 280 e oltre punti base, al Quirinale si preoccupano, e parecchio pure. Oggi lo spread è schizzato a quota 290, cioè ai massimi dallo scorso dicembre, quando si cercava di ricomporre la frattura con la Ue sulla manovra di bilancio 2019, già fatta tutta in deficit.


Se lo spread va sopra i 300 punti al Colle è allarme rosso

Per tanti motivi insieme (spread in su, possibile aumento dell’Iva, manovra di bilancio 2020 monstre e ancora tutta da costruire) se, nei prossimi giorni o nei giorni subito dopo le elezioni europee, lo spread dovesse salire a 300 punti base, al Quirinale scatterebbe “l’allarme rosso”. Insomma, Mattarella prenderebbe in mano il dossier ‘governo’ e cercherebbe di sbrogliare subito l’ingarbugliata matassa.


Il motivo per cui lo spread è arrivato a 290 punti base…

Certo che, a innescare il brusco innalzamento dello spread, in un periodo di per sé poco felice per i mercati finanziari, vista la querelle tra Usa e Cina sui dazi, è stata l’uscita di ieri del vice-presidente del Consiglio, Matteo Salvini, che ha definito “doveroso” lo sforamento dei parametri Ue su deficit e debito per dimezzare la disoccupazione. Una dichiarazione che ha ‘chiamato’ la repentina contro-mossa di Luigi Di Maio, che si è schierato in nome della moderazione e della responsabilità contro Salvini, invitandolo a evitare sparate e a concentrarsi piuttosto sui tagli agli sprechi e sul recupero di risorse dall’evasione fiscale. Ma Salvini non molla e insiste anche oggi: “Se una cosa è giusta, va fatta. Non sono al governo per crescere dello 0,3% o dello 0,4%, servono scelte coraggiose, non irresponsabili”. “Ho due figli, non mi interessa guadagnare consenso alle elezioni europee per poi lasciare una landa desolata a me interessa ambire a un tasso di disoccupazione che non sia del 10,2%”, continua Salvini. E a chi gli domanda della fiammata dello spread, il leader leghista ha risposto di non esser “assolutamente” preoccupato: “Prima viene il diritto al lavoro, alla vita e alla salute degli italiani”.


Tria prova a spegnere l’incendio, ma non ci riesce

Sull’andamento del Btp interviene anche il ministro del Tesoro, Giovanni Tria: secondo lui “il nervosismo dei mercati, che si legge nelle oscillazioni dello spread, è ingiustificato ma comprensibile alla vigilia di queste importanti elezioni europee. Gli obiettivi di finanza pubblica del governo sono quelli proposti dal governo stesso e approvati dal parlamento con il Documento di economia e finanza”, chiarisce Tria, sgombrando il campo dalle ipotesi di Salvini mentre lo stesso premier Conte “non esclude” l’aumento dell’Iva, nella prossima manovra. Del resto, pochi giorni fa, Antonio Forte del Cer calcolava che veder salire lo spread oltre i 350 punti comporterebbe un costo di quasi 750 milioni per la restante parte dell’anno e 7,7 per il prossimo biennio 2020-2021 (complessivamente vorrebbe dire una cifra di 8,45 miliardi che peserebbe, appunto, come minori entrate sui nostri conti pubblici).


Conte “non esclude” il possibile aumento dell’Iva

Ma, come si diceva, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ammette che non far scattare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo “non sarà un'impresa facile”, anche se ribadisce “l’impegno ad evitarlo” e quindi, di conseguenza, a “disinnescare le clausole di salvaguardia previste”. Parlando oggi a Roma all’assemblea di Rete Imprese Italia, Conte spiega quali saranno le soluzioni a cui il governo ricorrerà per scongiurare il rialzo dell’Iva: “Stiamo studiando una profonda azione di spending review che riordini la giungla di tax expenditures che complicano la struttura del nostro sistema fiscale e potenzi gli sforzi nella lotta all’evasione fiscale”. Nessun accenno alla flat tax, per la Lega prioritaria, solo misure chieste dai 5Stelle.


Certo è che la prossima manovra di bilancio parte già con una pesante posta eredità del passato: 23 miliardi di clausola di salvaguardia che scatteranno principalmente attraverso un aumento dell’aliquota Iva dal 10 %al 13% (ad esempio su carni, pesce, energia elettrica per uso domestico, gas metano per uso domestico) e dal 22% al 25,2% su altri consumi quali abbigliamento, calzature, detersivi, elettrodomestici. Perché non scatti questa stretta, servono coperture alternative. Neanche un mese fa la risoluzione di maggioranza – composta da Lega e M5s - al Documento di economia e finanza impegnava il governo a trovarle. Sul punto, peraltro, più volte sono intervenuti i due vicepremier, ribattendo alle posizioni più possibiliste del Tesoro che, a sua volta, non esclude un aumento dell’Iva. Dopo, Conte torna sulle sue parole, dicendo di “non aver mai messo in dubbio che eviteremo l’aumento dell’Iva”, ma il danno è fatto: Lega e M5S non la prendono bene, anzi: pretendono, da Conte, l’ennesima, imbarazzata, rettifica.


L’ultima legge di Bilancio ha sterilizzato le clausole di salvaguardia per l’anno di riferimento, il 2019, ma le ha rafforzate per quelli a venire con un aggravio complessivo nell’ordine dei 9 miliardi. E per il 2021 si prevedono già altri 29 miliardi di risorse da reperire. Il riferimento di Conte alle tax expenditure riprende, invece, quanto indicato nello stesso Def, ovvero un riordino (l’ennesimo promesso) delle spese fiscali che per lo stesso Ufficio valutazione impatto del Senato è un'opera “non agevole”. L'ultimo Rapporto annuale sulle spese fiscali, relativo al 2017, ha censito 636 misure diverse, di cui 466 erariali e 170 relative a tributi locali. Un “labirinto di agevolazioni” (la definizione è degli economisti di Palazzo Madama) dall’impatto finanziario significativo: comporta minori entrate per lo Stato di 75,2 miliardi di euro per il 2018 e, su di loro, dice il Senato, mancano informazioni fondamentali.


Rimpasto, Conte due e voto anticipato: le tre strade

Tre sono le strade che si aprirebbe, agli occhi del Colle. La prima, e la meno indolore, sarebbe quella del rimpasto: mossa rapida e sostanzialmente indolore porterebbe a cambiare alcuni ministri (la Lega mira alle Infrastrutture, ma anche alla Sanità, mentre il ministro alla Famiglia, Fontana, potrebbe saltare perché inviso ai 5Stelle, mentre ‘cacciare’ dal suo posto la Trenta sarebbe più difficile) e, soprattutto, a far scrivere a questo governo – il ‘Conte 1’ – la manovra economica 2020 contando su una Commissione Ue tutta ‘nuova’ che potrebbe dare margini nuovi all’Italia. Il secondo scenario prevede, invece, un ‘Conte 2’. Cioè, un governo del tutto nuovo, rimesso in pista da una nuova stesura del ‘Contratto di governo’ e dai nuovi equilibri interni alla maggioranza che usciranno dalle urne europee, che prenda le misure alle cose da fare e a un Paese stremato e, di fatto, entrato in una fase di recessione ‘tecnica’. Non sarebbe facile, farlo, ovviamente, ma salverebbe la capra (il governo) e i cavoli (la sopravvivenza della legislatura). Certo è che un governo ‘rinnovato’ e su basi ‘nuove’ potrebbe avere, potenzialmente, una durata molto lunga, forse l’intera legislatura, che scade formalmente nel 2022, riuscendo persino ad eleggere, sulla base dell’attuale maggioranza gialloverde, il nuovo presidente della Repubblica: non potrebbe che uscire da uno dei due partiti.


La terza strada, ovviamente, sta nel ricorso alle urne anticipate. Altrettanto ovvio che Mattarella, prima di mettere mano all’arma ‘fine di mondo’ (le elezioni anticipate e lo scioglimento prematuro della legislatura che diventerebbe così la più breve dell’intera storia repubblicana) le proverebbe tutte. A partire dalla richiesta, a tutti i partiti, di sostenere un governo ‘tecnico’, stile tentativo Cottarelli, che faccia la manovra economica d’autunno e poi passi subito la mano per andare a votare nei primi mesi del 2020. Ma Mattarella sa già che tutti i partiti gli chiederebbero, in quel caso, di andare al voto “e subito” e che, dunque, un governo ‘tecnico’, o del ‘Presidente’ naufragherebbe al primo scoglio (o voto). Essendo impossibile formare un’altra maggioranza politica (Pd+M5S o centrodestra+transfughi M5S) per mancanza di numeri ‘reali’ (quelli sulla ‘carta’, si sa, non valgono nulla), non resterebbe, appunto, che la corsa verso urne d’autunno.


Il gioco sulla data del voto, prima del voto, non ha senso

Ma “Bisogna aspettare il 27 maggio, altro non so dirti…”. Ormai, se si prova a parlare con qualsiasi esponente politico di Lega e M5S, la risposta è sempre la stessa. Prima di dire o congetturare su qualsiasi scenario futuro (crisi di governo, rimpasto, elezioni anticipate), bisogna che vengano contati, e ‘pesati’, i voti reali, quelli delle europee. Peraltro, per un nemmeno troppo assurdo paradosso, un cattivo risultato della Lega e un buon risultato dei 5Stelle potrebbe questo sì determinare lo scontro finale, con tanto di rottura dell’alleanza di governo e precipitosa corsa al voto. Infatti, sempre per paradosso, un buono, se non ottimo, risultato della Lega e un cattivo risultato dei 5Stelle potrebbe – checché se ne pensi e dica – produrre, invece, l’effetto opposto. E, cioè, la tenuta dell’alleanza gialloverde e la riscrittura di un nuovo ‘Contratto’ di governo per ‘tirare avanti’ l’esecutivo e la legislatura se non “altri quattro anni”, cioè fino alla sua scadenza naturale, almeno uno o un altro paio, di certo, almeno, fino al 2020.

Ma questi sono, appunto, scenari futuribili e, prima del voto delle Europee, è anche inutile solo strologarci sopra. Come pure lo è, per capirsi, ‘innamorarsi’ delle date del possibile voto anticipato. Certo, è vero che, al Quirinale, non hanno ‘preso impegni’, nell’agenda del Capo dello Stato, per l’intero mese di giugno (cancellate tutte le visite all’Estero), ma è anche vero che parlare, oggi, di possibili date è ridicolo se non pleonastico. Ieri, nei Palazzi della Politica, è spuntata l’ultima, quella del 6 ottobre. Il che, però, vorrebbe dire che la crisi formale di governo e il conseguente scioglimento delle Camere non si aprirebbe che a inizio agosto, cioè troppo tardi per tenere il Paese – e per ben due mesi, giugno e luglio! – in una crisi di fatto.

A quel punto è molto più ragionevole pensare che, se crisi deve essere e Camere devono essere sciolte, la data del voto non tarderebbe oltre l’ultima domenica di settembre, costringendo sì i partiti a una faticosa campagna elettorale “sotto l’ombrellone”, ma ‘salvando’ gli importanti, cruciali, appuntamenti che l’Italia ha, ogni anno, con l’Europa: presentazione del Def entro il 27 settembre e invio della manovra di bilancio alla Commissione Ue il 15 ottobre.


Il Colle pronto a farsi ‘garante’ del Paese davanti la Ue

Peraltro, nella storia politica italiana, non si è mai votato, in autunno, e anche se si votasse a settembre è ragionevole pensare che passerebbero almeno due mesi tra insediamento delle nuove Camere, consultazioni e formazione del nuovo governo. Il che porterebbe il Paese, di fatto, al rischio di un esercizio provvisorio dei conti pubblici (la legge di Bilancio va approvata non oltre il 31 dicembre) con tutto quello che questo fatto comporterebbe sui mercati finanziari (lo spread) e in Borsa, sottoponendoci a un attacco finanziario così pesante da far rimpiangere quello del 2011. A quel punto, però, il Colle – così dicono i bene informati – si farebbe lui stesso ‘garante’, davanti alla Commissione Ue, ma anche davanti ai mercati e alle Borse, della tenuta e della stabilità del Paese, a partire dai suoi conti pubblici. Insomma, sarebbe il Capo dello Stato a spiegare all’Europa che “il nostro Paese è sotto elezioni e alle prese con una nuova fase politica, dovete darci del tempo”. Persino l’esercizio provvisorio non sarebbe visto come un ‘male assoluto’, al Colle, se servisse tempo per formare un nuovo governo, sorretto però da una maggioranza chiara, netta e coesa come quello gialloverde non è mai stato. Detto questo, però, e cioè di quanto sia difficile correre verso il voto anticipato, Salvini e Di Maio, ogni giorno, ci mettono del loro per complicare le cose e rovinarsi il fegato (oltre che rovinare quello degli italiani). La ‘corsa al voto’ sarebbe una loro responsabilità e dovranno essere loro a spiegare al Paese perché si tornerebbe a votare così presto.


di Ettore Maria Colombo

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