Si apre domani mattina, all’hotel Ergife di Roma, l’Assemblea nazionale del Pd, e cioè il suo massimo organo statutario, composto da mille persone aventi diritto di voto più altre trecento ‘invitati’ ma che non possono votare. In teoria, all’ordine del giorno c’è un solo punto, le dimissioni del segretario reggente, eletto all’ultima Assemblea del Pd, lo scorso giugno, Maurizio Martina e l’indizione del nuovo, e straordinario, congresso del Pd con annesse primarie che dovrebbero tenersi il 3 marzo del 2019, anche se, in un primo momento, i maggiorenti del Pd avevano pensato di tenerle a gennaio e poi a febbraio, ma poi si sono resti conto che ci sono, di mezzo ben due elezioni Regionali (in Sardegna e in Basilicata), quindi ecco spuntare marzo...
Ma, domani, all’Ergife, tutto è possibile. Infatti, se qualche buontempone (o qualcuno politicamente indirizzato da altri) si alzasse e chiedesse di votare ‘contro’ le dimissioni di Martina o proponesse di eleggere un nuovo segretario non con le primarie, ma ‘dentro’ l’Assemblea, tutto potrebbe succedere, i giochi riaprirsi e l’Assemblea diventare una bolgia infernale con annessi scambi di accuse e di veleni. Se, invece, tutto filerà liscio, le dimissioni di Martina saranno accolte, verranno nominate due commissioni congressuali (quella Statuto e quella elettorale) e l’unico organo che resterà in carica “per il disbrigo degli affari correnti” sarà il presidente dell’Assemblea, Matteo Orfini mentre la segreteria Martina sarà stata la più breve (e, oggettivamente, incolore) nella ormai lunga storia del Pd.
Infatti, in base allo Statuto, Martina sarebbe dovuto restare segretario fino al… 2020. Un tempo biblico e inaccettabile per i diversi (tanti, troppi) contendenti alla carica di segretario che smaniano anche solo all’idea di lanciarsi alla guida del Pd. Eppure, il Pd ha preso una sonora sberla elettorale alle elezioni politiche dello scorso 4 marzo (il 18% dei voti, 6.134.727 in voti assoluti alla Camera), realizzando il punto più basso, in termini di consensi, della sua storia e di quella della sinistra (solo nel 1992 il Pds di Occhetto riuscì a fare peggio con il 16%…), ha eletto una manciata di parlamentari (91 deputati e 45 senatori) ed è entrato in una crisi politica profonda tra richieste di scioglimento (l’ex ministro Carlo Calenda) e proposte di cambiamento radicale di nome e simbolo (Orfini e altri).
Inoltre, il giorno dopo le elezioni, il segretario uscente, Matteo Renzi, si è dimesso, la palla è passata, appunto, all’Assemblea nazionale che ha eletto Martina, già ministro e vicesegretario di Renzi, prima come ‘reggente’ del partito e poi, a giugno, come segretario con pieni poteri. La segreteria di Martina, però, si è consumata in un amen, nonostante qualche tentativo mediatico, presto fallito, di far parlare di sé come le segreterie convocate nelle periferie di diverse città (Torbellamonaca a Roma, lo Zen a Palermo) mentre il Pd, durante la crisi di governo, si lambiccava sulla necessità di partecipare, in posizione subalterna, a un “governo del cambiamento” guidato dall’M5S o rassegnarsi a finire nell’angolo, cioè all’opposizione. Per la prima tesi premevano alcuni big (gli ex ministri Franceschini, Orlando e Pinotti, ma anche il segretario Martina), per la seconda Renzi e i suoi. “Senza di me” è la (riuscita) campagna dei renziani, che ancora conservano la maggioranza nel partito, sia dentro i gruppi parlamentari che dentro gli organismi statutari (Direzione e, appunto, Assemblea nazionale) e così il Pd è finito all’opposizione (dura) del governo gialloverde. A metà ottobre, però, si è verificato un fatto nuovo. Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, rieletto alla guida della Regione per il rotto della cuffia, ha annunciato la sua candidatura, che in realtà covava da mesi, alla guida del partito con un’iniziativa popolare (peraltro assai ben riuscita) all’ex Scalo di San Lorenzo di Roma che viene ribattezza ‘Piazza Grande’. Con ‘Zinga’ si schiera subito la sinistra del partito (l’area Orlando), ma anche molti big (Franceschini, Fassino, Pinotti, etc.) che, a Renzi, la vendetta, sia per la composizione delle liste elettorali sia per come ha guidato il partito, travolgendolo nella sconfitta alle Politiche ma anche al referendum costituzionale, “l’hanno giurata” da tempo. Tra questi, figura anche l’ex premier uscente, Paolo Gentiloni, che con Renzi ha avuto più di un attrito, durante il suo governo, su diversi dossier.
A ruota, cioè subito dopo l’autocandidatura di Zingaretti, ma alcuni anche prima, escono un’altra serie di candidati, veri o finti, già bollati come i ‘dieci piccoli indiani’ del Pd. Si va dall’ex renziano, oggi in proprio, Matteo Richetti, all’ ‘emiliano’ (nel senso del governatore della Puglia, Michele Emiliano) Francesco Boccia, dall’ex ministro Cesare Damiano, che ha fondato i suoi ‘Laburisti dem’, al giovane Dario Corallo (figlio di un giornalista dell’Ansa, Paolo Corallo) che si lancia da outsider e senza alcuna rete ma che promette battaglia con uno slogan (“Questi dirigenti devono andare tutti a casa!”) che ricorda… Nanni Moretti.
Infine, anche il segretario, da domani dimissionario, Martina manifesta la sua volontà di essere della partita dopo aver avuto un discreto successo alla manifestazione indetta contro il governo, a piazza del Popolo, il 30 settembre. Poi, però, Martina attende che passino, senza dire nulla sul suo futuro, sia il consueto show della Leopolda (nona edizione) che Renzi organizza nella sua Firenze il 19-21 ottobre, sia la conferenza programmatica dem di Milano del 28 ottobre. E così, Martina, che potrebbe godere dell’appoggio dell’area dei Giovani Turchi, che fa capo a Matteo Orfini, sia di quella del capogruppo alla Camera, Graziano Delrio, fa scorrere tempo nella clessidra senza sciogliere la riserva.
Non che la galassia (o, meglio, la corrente) renziana stia messa molto meglio. Infatti, neppure la prima riunione di ‘area’ dei renziani (Renzi si era sempre fatto un vanto di ‘non’ avere una corrente come tutti gli altri big del Pd…), che si è tenuta a Salsomaggiore tra il 9 e il 10 novembre, scioglie il nodo di quale sarà il ‘campione’ del renzismo. I renziani hanno, sostanzialmente, l’anima divisa in due: c’è chi, e sono i pasdaran del renzismo (Andrea Marcucci, capogruppo al Senato, Sandro Gozi, Ivan Scalfarotto, etc.), preme affinché Renzi molli gli ormeggi e lasci alla rinata ‘Ditta’ (quella impersonificata da Zingaretti) il partito per fondarne uno del tutto nuovo, liberal ed europeista, e chi – i renziani ‘moderati’ come Lorenzo Guerini e altri ex della Margherita che fu – vogliono dare battaglia al congresso, ma che, anche se lo perdessero, non vogliono uscire dal Pd. Ed è qui che entra in gioco l’ultima, possibile, candidatura. Quella dell’ex ministro degli Interni, Marco Minniti, che ormai da almeno due mesi sta girando l’Italia ‘con la scusa’ di presentare il suo libro (Sicurezza è libertà), suscitando molto interesse e consensi. Minniti dovrebbe sciogliere la sua ‘riserva’ a giorni, dopo aver aspettato fin troppo a farlo (probabilmente lo farà domenica, cioè dopo l’Assemblea), ma pretende ‘mani libere’ dalla galassia renziana, ‘Giglio magico’ (Lotti, Boschi, etc.) in testa. Insomma, vuole essere un candidato “che unisce” e non “che divide”. Se Minniti si lancerà per la carica di segretario si vedrà, ma certo è che il Pd è un partito, ora più che mai, ‘diviso’, non certo ‘unito’. Infine, un’ultima notazione curiosa sul parlamentino dem che si riunirà domani. Se, alle primarie del marzo 2019, nessun candidato supererà il 50,1% dei voti, i primi tre meglio classificati (Zingaretti, Minniti e Martina, a occhio) dovranno strappare l’elezione proprio in un catino, quello dell’Assemblea nazionale, che si rinnoverà con le primarie e dove tutti i giochi potrebbero riaprirsi con l’alleanza di due dei candidati meglio piazzati contro il terzo arrivato. Insomma, ‘grazie’ all’arzigogolato e astruso Statuto del Pd, tutto può ancora succedere, in Assemblea, oggi e in futuro.
di Ettore Maria Colombo
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