(Foto degli anni 80 quando il Papa fece visita agli stabilimenti Enichem)
Sono passati 15 anni dalla scomparsa di Lorenzo Necci, venuto a mancare prematuramente e tra i più grandi manager pubblici del nostro Paese, essendo stato al vertice di società come Eni e Ferrovie dello Stato, nonché anticipatore dei grandi processi di sviluppo. Nel giorno dell’anniversario, la figlia Alessandra, storica e scrittrice di fama nazionale, ricorda, in un’intervista esclusiva rilasciata a Spraynews, una figura, che per visione può essere considerata alla pari di Enrico Mattei.
Spesso il ricordo avviene solo in determinate occasioni. E’ d’accordo?
«L’Italia ha un rapporto difficile con la memoria dei grandi uomini e delle grandi donne, nonché degli avvenimenti perché spesso rischia di diventare selettiva. Ci sono personaggi che in un certo senso sono stati espulsi dalla cornice della storia, pur avendo dato un contributo fondamentale. Non possiamo dimenticare coloro che hanno reso grande il Paese. Per ciò che concerne mio padre, questo concetto è assolutamente valido. Veniva da una storia dell’Italia migliore, quella che investiva nell’istruzione, nella formazione dei propri figli e nel merito. Tant’è, che pur avendo umili origini, riuscì grazie a impegno, studio, talento a diventare uno dei manager più importanti d’Italia. La sua forza, infatti, era la capacità di visione. Non era uomo che si limitava al giorno per giorno. Immaginava un futuro e faceva, in modo che gli scenari, fossero i migliori possibili per il suo progetto Paese».
Lei sottolinea sempre molto l’importanza della memoria. Quale memoria, quale ricordo ha di suo padre?
«Il mio ricordo, la mia memoria di mio padre è costante, perenne. Avevamo una lunga tradizione epistolare e si potrebbe dire che anche le mie biografie sono, in un certo senso, lettere a mio padre. Di lui conservo innanzitutto il ricordo di un uomo di “luce”, contrapposto a tante “creature d’ombra”, di un uomo geniale e al tempo stesso semplice, un animo generoso, empatico, sempre pronto ad aiutare. Troppo in alto, umanamente, per vedere i lacciuoli che gli tendevano».
Necci ha immaginato e realizzato la Tav. In che cosa la visione delle infrastrutture ha inciso sul sistema Paese e quanto ancora è attuale?
«Mio padre sosteneva che un paese che non investe in infrastrutture non ha avvenire. Era convinto dell’importanza di un sistema integrato, in cui le infrastrutture dovevano dialogare tra loro: strade, autostrade, interporti, ferrovie, aeroporti e navi. L’Alta Velocità era solo la tessera di un mosaico. Un’intuizione che oggi ci sembra evidente all’inizio degli anni 90 non lo era, considerando che già allora riteneva che l’Italia fosse il ponte dell’Europa».
Dalla logistica all’Europa, era avanti su tante cose, ma cosa del suo progetto ancora oggi non è stato del tutto realizzato?
«L’infrastrutturazione del sistema Paese non è assolutamente completata. La società di servizi di cui spesso parlava doveva riuscire a trovare anche una cifra etica, diceva che i suoi valori, ovvero le emergenze da risolvere, erano la questione istituzionale, quella infrastrutturale, il tema della produttività e soprattutto l’etica. Su ciò c’è ancora molto da fare. La fase post-Covid, quindi, può essere una grande occasione. Il ruolo dei cittadini e delle corporation è molto diverso rispetto al passato e ciò ci porta a essere attori di un nuovo liberalismo democratico, dove la tecnologia certamente svolge un ruolo fondamentale».
Altro tema, che lo ha distinto, la sua visione su energia e sviluppo…
«Mio padre si era formato in un’Italia dove molto forte era l’idea di progetto industriale. Era un amministrativista, laureato in legge. Per tutti gli anni 80 ha portato avanti il disegno di una grande chimica italiana. Molte sfide, però, come lui ha sempre ammesso, non furono comprese e, perché no, anche perse come non solo quella chimica, ma anche quelle relative a nucleare, elettronica e in parte le stesse infrastrutture. La politica non sempre ha avuto un disegno. Per lui il particolare, a volte, prevaleva sul generale».
Ci parla del suo “decalogo per la politica industriale”?
«Si toccavano moltissimi punti, dall’artigianato, al terziario e al tema stesso dell’energia, nonché ai servizi, al rilancio delle città, al valore che non deve prevalere sui valori. Era, quindi, una sorta di vademecum non solo per gli imprenditori, ma pure per la politica stessa».
Cosa può essere ancora attuale?
«Soprattutto dopo che era stato estromesso dalla scena pubblica, il suo bilancio era amaro, dall’altra parte, però, era profondamente fiducioso nelle forze migliori del Paese. La sua estromissione forzosa ha fatto sì che l’idea d’Italia che aveva in mente non prevalesse. Egli credeva, infatti, nelle competenze, non nelle appartenenze, nel merito e nel talento, non negli interessi particolari. Tutto ciò si è visto in tutta la sua storia e in tutti i suoi libri. Credo che la sua fiducia nella parte migliore del Paese, oggi, sarebbe più forte che mai, così come ritengo che guarderebbe con grande interesse all’Italia che oggi si potrebbe costruire. Dalle grandi crisi possono venire fuori opportunità. E’ stato sempre così nella storia. Naturalmente le occasioni vanno colte. In passato, ad esempio, egli tante volte aveva parlato delle privatizzazioni avvenute senza liberalizzazioni, della mancanza di logica industriale, dei monopoli pubblici che sono stati resi privati grazie a banca e mercato. Lui vedeva con grande chiarezza i problemi irrisolti, ma al tempo stesso aveva la capacità di vedere gli scenari possibili, i migliori e anche i peggiori. Parlava di liberalismo, di Europa integrata, di una serie di questioni che a guardarle oggi sono ancora attuali. Bisogna avere un’Italia che abbia il coraggio di investire sui giovani e sul merito, non nascondendo le pagine più cupe. Se non c’è passato, non si può costruire futuro».
Che ruolo occupava la cultura in tutto ciò?
«Bisogna tornare a investire nella formazione, nell’istruzione e nella competenza. Egli credeva molto nell’immaterialità. Mi diceva sempre che Roma è diventata grande non solo per le strade, gli acquedotti e per le grandi opere pubbliche, ma per il latino e i codici. Oggi quell’esempio è più che attuale. Siamo in una sorta di nuova terra di mezzo, in un nuovo Medioevo-tecnologico. Occorre avere il coraggio di andare verso un nuovo umanesimo. La formazione della classe dirigente, in tal senso, per lui era fondamentale. Aveva un’impronta abbastanza francese, che passava anche per le grandi imprese pubbliche. I migliori manager, però, sono scomparsi e tale meccanismo quindi è venuto meno. Non ci sono, inoltre, più i partiti e i grandi enti di Stato che formavano le élites, che non dovevano essere considerate sempre come una parolaccia. Mio padre credeva in una politica forte e non nell’antipolitica che spesso sentiamo oggi, in cui dialogo e diversità sono fondamentali. Era per chi immagina
e progetta, non per l’indecisionismo, con un obiettivo di lungo respiro».
Edoardo Sirignano
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