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Alessandra Necci, viviamo una riedizione del Medioevo in versione tecnologica


A colloquio con la scrittrice e biografa Alessandra Necci: “È come vivere in un nuovo Trecento, fra guerre, carestie, pestilenze e cambi climatici. Ma la società digitale ci ha imprigionati in un eterno presente, una transizione che non conduce da nessuna parte. Mentre la Storia è un fluire, come fosse un fiume, un mare. Porta via e restituisce”

di Davide D’Alessandro

Con Alessandra Necci non potevo che iniziare a parlare sotto le stelle di San Lorenzo, dopo aver letto le sue intense pagine su Niccolò Machiavelli. Il padre, noto, si chiamava Lorenzo, il figlio si chiama Lorenzo, a loro ha dedicato libri importanti su donne e uomini che hanno fatto la Storia, biografie intense, la microfisica del potere descritta attraverso le passioni che da sempre muovono il mondo. L'ultima fatica, su Maria Antonietta e Maria Teresa, edita da Marsilio, racconta dei due destini tra l'assolutismo e la Rivoluzione.

Quali caratteristiche deve possedere un evento perché diventi Storia?

Penso che la Storia sia fatta dagli uomini e dalle donne che interpretano la “commedia umana” nelle varie epoche. Sono convinta che possano forgiare, influenzare e modificare gli accadimenti. Credo invece poco alle ideologie, agli schemi rigidi per cui sono le situazioni che prevalgono sui protagonisti. I quali - è ovvio - non sempre sono consapevoli di scrivere una pagina di Storia: questo è il compito, appunto, degli storici negli anni a venire. Gli eventi diventano Storia quando segnano uno snodo, ma anche una frattura, una svolta, una discontinuità nella loro epoca. Può trattarsi di una rivoluzione, un cambio di regime, un movimento di pensiero, una scoperta scientifica. Di solito lo si scopre dopo, comprendendo il contesto e quindi l’importanza del passaggio vissuto. Nell’immediato, spesso, esiste solo la propaganda, cioè lo sforzo di piegare quell’avvenimento agli interessi di una parte.

La Storia la scrivono sempre i vincitori?

La Storia la scrive chi sopravvive, chi ha l’ultima parola. Certo i vincitori sono facilitati nell’immediato, sul breve periodo, forse sul medio. Non sul lungo. A quel punto, infatti, perdono il loro privilegio, il giudizio diventa più articolato, la ricerca - quella vera e seria - ottiene la sua rivincita. E anche gli sconfitti, i calunniati, i mal compresi possono avere giustizia. Possono far sentire la loro voce. Per me, questo è il compito - in fondo, il privilegio - del biografo. Restituire, ridare la voce. Non basta vincere, per imprimere un sigillo agli eventi. Esiste una variabile fondamentale: il Tempo. Con il passar degli anni, magari dei secoli, affiorano “altre” storie, “altre” verità (o bugie). Ciascuno riacquista il livello, la dimensione che gli è propria. La grandezza - o la piccolezza - si vede e si capisce con la distanza. Il Tempo è, ricordava Marguerite Yourcenar, un “grande scultore”. Con lui non si può mentire: restituisce a ognuno ciò che gli spetta. Ma può essere anche un alleato. Mazzarino, che lo sapeva, aveva scelto il motto Le Temps et moi, “Il Tempo ed io”. Non bisogna dimenticare, infine, che la Storia la scrivono anche gli storici. O forse la riscrivono, dalla propria angolazione. “Cosa è mai questa tanto decantata verità storica? - chiosava Napoleone - Una favola convenzionale”.

Com'è nato il tuo amore per la Storia?

Ho amato la Storia - e ancor prima la lettura, senza cui essa non si può capire - da sempre. I miei genitori mi hanno incoraggiato, leggendomi molti libri e portandomi ancora da piccola nei luoghi simbolo delle vicende umane. In Grecia sono stata per la prima volta a tre anni. Ho fatto la stessa cosa con mio figlio Lorenzo, fra la perplessità quasi generale. Non si ricorderà nulla, mi dicevano. Forse no, ma resteranno impresse in lui delle immagini, delle sensazioni, degli archetipi, rispondevo io. Da bambina avevo visto uno sceneggiato televisivo che mi aveva affascinato. Si intitolava Marco Visconti. La sigla iniziava così: “Cavalli ricamati sull’arazzo del passato, passato che ritorna su un accordo in si minore”. Ecco, per me la Storia è un immenso arazzo da osservare, studiare, ammirare. Un passato che ritorna senza sosta, perché se è vero che “tutto scorre”, è vero anche che tutto torna. Sempre gli stessi sono i caratteri; sempre le stesse le passioni. Parlo del passato per capire e far capire il presente, per “dire” del presente. Ma inserendolo in una cornice di più ampio respiro. Inoltre - forse perché amo viaggiare - la Storia ai miei occhi rappresenta un viaggio nel tempo e nello spazio. Una maniera per vivere molte vite.

Come si scrive un libro di Storia?

Scrivo principalmente biografie, e dunque narro la Storia attraverso le vite degli esseri umani. Un punto di osservazione prismatico, caleidoscopico, proteiforme. E al contempo costante, persino “ripetitivo”. Per scrivere, mi reco nei luoghi in cui gli uomini e le donne che racconto hanno vissuto. I luoghi sono impregnati di ciò che è avvenuto, riflettono come in uno specchio le personalità di chi li ha abitati. Si sente, si annusa il profumo di chi ha vissuto lì. E degli accadimenti avvenuti. Il bene e il male lasciano una traccia potente. E poi leggo le lettere dei protagonisti: rivelano moltissimo, anche quello che si vorrebbe tenere celato. Inoltre, mi immergo nei memorialisti dell’epoca, cerco quello che Honoré de Balzac chiamava le petit détail, “il piccolo dettaglio”. Ancora, spulcio tutti i testi possibili e immaginabili. Non solo su colui o colei di cui scrivo, ma sulla famiglia, sugli amici, i nemici, le abitudini. Sull’epoca. Scavo a fondo. Sto incollata alla scrivania, mi sigillo in un altro tempo. Imito i monaci miniatori del Medioevo, chiusi nella loro celletta e nello Scriptorium. Alle volte è sfinente, pare un cilicio; altre è meraviglioso. Diceva Luigi Pirandello che “la vita, o la scrivi, o la vivi”. Io cerco di fare l’una e l’altra cosa, a fasi alterne.

Hai avuto maestri? Se sì, cosa ti hanno insegnato?

Ho avuto e ho diversi maestri, alcuni ideali e altri reali. Ho imparato molto dal mio editore, Cesare De Michelis, uomo di raffinata cultura e straordinaria capacità di far rivivere le situazioni e i personaggi, come se fossero lì presenti, di fronte a te. Una volta, in taxi, ci eravamo così accalorati su Dante e Petrarca - io propendevo per il primo, lui invece per il secondo - che il taxista si girò a guardarci, perplesso. Poi, in perfetto romanesco, decretò che aveva visto tanta gente discutere, ma mai per Dante. Cesare mi ha insegnato il valore della passione e del rigore che si deve mettere in ciò che si fa, soprattutto quando ci si occupa di cultura e di libri. Fra i tanti scrittori che ammiro, un posto speciale lo occupa Stefan Zweig. Il suo straordinario modo di raccontare la Storia attraverso la vita e la psicologia delle persone mi ha formato. Non credo a chi dice che la Storia sia solo un susseguirsi di date ed episodi. Penso invece che la psicologia debba essere considerata come una chiave fondamentale per capire quello che è successo e perché è successo. Perciò potrei dire che ho imparato molto anche dai grandi padri della psicanalisi. E poi sono incantata dalla bellezza, dall’intelligenza che sa sprigionare una penna felice. In questo senso, Memorie di Adriano è sempre stato il mio livre de chevet. Ma in fondo, miei maestri sono stati anche tutti i personaggi di cui ho scritto: hanno rappresentato patria e asilo, nutrimento e carezza. Mi hanno dato un senso di appartenenza, mi hanno aiutato a capire e avere un modello, mi hanno consolato. Mi hanno offerto uno spiraglio sull’eternità.

La Storia è maestra di vita. È proprio vero?

Lo è per chi è disposto ad ascoltarla. Insegna solo a chi vuole imparare. In tanti si meravigliano di quello sta accadendo dall’inizio del XXI secolo: a me, invece, sembra una riedizione del Medioevo, solo in versione tecnologica. È come vivere in un nuovo Trecento, fra guerre, carestie, pestilenze e cambi climatici. La differenza, rispetto al passato, è rappresentata dalla tecnologia. La società digitale - che pure, se ben usata, presenta degli indubbi vantaggi - ci ha imprigionati in un eterno presente, una transizione che non conduce da nessuna parte. Mentre la Storia è un fluire, come fosse un fiume, un mare. Porta via e restituisce. Contiene in sé passato, presente e anche futuro. Per questo trovo pericolosissimi fenomeni come il culture cancel, il memory cancel, che esaltano l’indifferenza, la non conoscenza, la volontaria rimozione del passato. Ridicolo, arrogante e incolto è pensare di valutare gli accadimenti e i grandi del passato con il metro del presente. La contestualizzazione è fondamentale per cercare di comprendere e per imparare.

Qual è il libro che ti ha impegnato più a fondo?

Posso dire quello che ho scritto più velocemente, e cioè Al cuore dell’Impero. Quello su Napoleone e il mondo femminile a lui vicino. Sembrava che la penna - o meglio, la tastiera del pc - fosse animata da una sorta di magia, correva da sola. Se avessi potuto non dormire e non mangiare, per non interrompere quella cavalcata rapsodica - ritmi napoleonici, non c’è dubbio - lo avrei fatto. L’ho scritto in poco più di un mese e mezzo. Per il resto, tutti gli altri sono stati impegnativi. Anche perché quasi sempre scrivo doppie biografie: il doppio mi affascina molto, è come uno specchio. Forse il libro più complicato, però, rimane quello su Caterina de’ Medici, che sulle prime mi rimaneva ostica, la trovavo volontariamente enigmatica e segreta. Poi mi sono servita di Machiavelli per capirla. Il Segretario fiorentino aveva dedicato Il Principe a suo padre, Lorenzo II (non Lorenzo il Magnifico, come molti credono): se l’avesse conosciuta, sono certa che lo avrebbe dedicato a lei. Caterina è Il Principe in gonnella.

Che cosa ti affascina e che cosa ti respinge in Machiavelli?

Direi che, per certi versi, le due cose coincidono. O forse sono speculari, come due facce della stessa medaglia. La comprensione dell’animo umano che matura il Segretario lo porta ad affermare: “Circa gli uomini, si può dire questo, in generale: sono ingrati, mutevoli, simulatori e dissimulatori, vili davanti al pericolo, avidi di guadagni. Finché gli sarai utile saranno tutti tuoi, ti affideranno i loro beni, il loro sangue, la loro vita. Questo fintanto che il bisogno è lontano da te, ma quando si approssima essi faranno voltafaccia”. E anche: “Chiunque tenti di essere buono in ogni occasione è destinato alla rovina, fra i tanti che buoni non sono”. Ha ragione, soprattutto quando riconduce le asserzioni all’uso del potere, al governo dello Stato. Eppure, nell’essere umano può esserci dell’altro. Peccato che grandezza, nobiltà, generosità siano appannaggio di pochi. In Machiavelli - Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio sono un vademecum per i potenti di ogni tempo - si trova tutto, eppure la sua convinzione che l’uomo sia “cattivo”, e le profonde delusioni che ha vissuto, lo portano a una visione amara, disincantata. Vera, ma che si vorrebbe veder contraddetta. Una cosa che mi piace moltissimo, invece, è quando - per sua stessa ammissione-, dopo “essersi ingaglioffito all’osteria”, il Segretario indossa i panni curiali e si mette idealmente a conversare con i grandi del passato. E apprezzo il suo profondo amore per l’Italia, il suo alto spirito civico, così diverso dal “machiavellismo” in cui è stato imprigionato. Personaggi come Gramsci lo avevano spiegato e compreso benissimo. A toccarmi maggiormente, tuttavia, è il fatto che Machiavelli riconosca nella Fortuna (ma si potrebbe chiamare Destino) "l'arbitro di metà delle vicende umane". E che anteponga costantemente a essa la Virtus, intesa in senso latino più che cattolico. Il problema del rapporto fra Virtù e Fortuna è uno dei temi su cui maggiormente mi interrogo. Come si fa a diminuire la discrepanza fra le due variabili?

Hai scritto di tante donne. Quali differenze mostrano, nel gioco del potere, rispetto agli uomini?

Generalizzare è difficile e poi io sono una meritocratica, per cui mi interessano più i talenti del genere. Comunque, direi che le donne toccano vette spesso più elevate, nel bene e nel male. Se sono brave, lo sono in modo esponenziale; se sono cattive, sono capaci di tutto. A volte, non sempre, si avvalgano della seduzione. Ma soprattutto sono tenaci, determinate, sanno attendere e dissimulare. Sono in grado di farsi strada aggirando o superando ostacoli incredibili. Quelle che mi hanno più colpito, forse, restano le grandi donne del Medioevo. Esempi straordinari per le ragazze di oggi. Da Teodolinda a Matilde di Canossa, da Ildegarda di Bingen a Giovanna d’Arco, da Santa Chiara a Christine di Pizan. Coraggio, forza, consapevolezza di sé, spiritualità, determinazione in un’epoca che certo non le tutelava per legge.

Vedi in giro qualche Napoleone o qualche Caterina de' Medici?

No. Siamo, per dirla con Bernard de Chartres, “nani sulle spalle di giganti”.

Dopo le ultime due donne, a chi sarà rivolta la tua prossima attenzione?

Vorrei scrivere di Richelieu e Mazzarino. Nei miei libri il tema di fondo è quasi sempre il potere. Ambìto, ottenuto, usato, sprecato, perso. E tutto quello che gli gira intorno: i cortigiani, gli adulatori, i traditori, i servitori leali (rarissimi), gli amministratori, i numeri due, gli artisti… Certo, mi interessa principalmente il potere inteso nel senso più nobile della parola, progettuale, usato per portare a compimento un disegno utile a tutti. Il potere che permette “di essere interamente sé stessi prima di morire”. Richelieu e Mazzarino lo hanno avuto ed esercitato al massimo livello. Hanno “fatto” la Francia dell’assolutismo. “Chi può essere simile a me?”, era il motto retorico del primo, colui che Dumas chiamava “La Sfinge rossa”.

Perché i Manuali di Storia sono così noiosi?

Non lo sono sempre. Personalmente ne ero affascinata, a scuola, e ho continuato a esserlo in seguito, compulsando quelli di mio figlio bambino. Credo, comunque, che un loro limite sia a volte quello di trattare di eventi e fatti, più che di personaggi. Anteporre i primi ai secondi. Fare una sorta di poco coinvolgente elenco di accadimenti, che restano distanti e poco comprensibili. Invece è importante coinvolgere, “agganciare” i ragazzi. Far capire loro che la Storia non è un dagherrotipo color seppia, che va studiata perché è nei programmi ministeriali. La Storia fa da bussola per il presente e aiuta a immaginare il futuro. Il nostro e soprattutto il loro. Per cui non va troppo sminuzzata, ridotta a omogeneizzato. E andrebbe studiata insieme alla geografia. Se non sai cosa erano le Fiandre, quanto erano estese, come fai a capirne l’importanza ai tempi di Carlo V?

Che cosa decreta il successo di un libro di Storia?

Quello che dicevo nelle righe precedenti. La capacità di entrare “dentro” un’epoca, far sentire ciò che sentivano i personaggi. Far comprendere che gli esseri umani si assomigliano in tutte le epoche, che i dolori, le passioni, le angosce sono già state vissute e sentite. Gli esempi, secondo me, valgano più delle spiegazioni. E poi è fondamentale mescolare la grande Storia con i piccoli aneddoti quotidiani. Come una ricetta di cucina, un libro deve avere i giusti ingredienti, combinati nelle dosi esatte

Qual è il personaggio storico che manca all'Italia?

A dire il vero, l’Italia è sempre stata formata da straordinarie individualità, che però a sommarle non danno alcun totale. A mio giudizio, quello che manca è la cornice capace di amalgamare, unire, fondere. Il cosiddetto “Progetto Paese”, le infrastrutture materiali e immateriali. Bisogna anche dire che i grandi “visionari”, in Italia, hanno spesso conosciuto destini drammatici e ingiusti. Molti dei suoi figli migliori sono stati divorati. Le lontanissime invettive di Dante e Petrarca sono state lungimiranti e forse profetiche. Pensando al fatto che Napoleone è nato il 15 agosto 1769 - un anno dopo la vendita della Corsica alla Francia da parte della Repubblica di Genova - mi sono chiesta se avrebbe potuto replicare le medesime gesta, in una Corsica “italiana”. Onestamente, credo che persino per lui sarebbe stato difficile.

"Fatta l'Italia, dobbiamo fare gli italiani". Ma sono stati fatti e l'Italia e gli italiani?

La frase di Massimo D’Azeglio sintetizza l’enormità del compito che si parava davanti a coloro che avevano unificato l’Italia. Una nazione da costruire, un popolo da unire nella sostanza oltre che nella forma. Forse non ci siamo riusciti del tutto nemmeno oggi. L’asserzione fu comunque ripetuta mille volte nel corso degli anni, spesso con una curvatura scettica e disincantata. Mussolini pensava che governare gli italiani fosse “inutile”. Il motivo lo ha spiegato Roberto Gervaso, riprendendo lo scetticismo di Prezzolini, secondo cui siamo “un popolo di pecore anarchiche”. Quindi sarebbe impossibile “fare gli italiani” per un vizio di fondo che riconduce a un individualismo spicciolo e irriducibile, benché compatibile con un certo conformismo di massa. Bisogna però evitare le semplificazioni. Noi non abbiamo, come nazione, l’esperienza secolare e fondamentale di Francia e Gran Bretagna, per citare i due maggiori esempi. La nostra è la storia dei mille campanili, più che di un paese forgiato nelle guerre e nelle rivoluzioni, con un solido senso del rapporto con lo Stato. Il “particulare” di cui parlava Guicciardini ha quasi sempre prevalso sull’interesse generale. E il Rinascimento, considerato l’epoca “della grande bellezza”, è stato anche l’età “della grande ferocia” e delle divisioni. Fu Ludovico il Moro a chiamare i francesi alla fine del Quattrocento, aprendo così le Guerre d’Italia. A cui seguirono le dominazioni straniere. Quell’errore è stato ripetuto molte volte. Benché non ci siano state, in tempi recenti, invasioni militari, sono giunte quelle economiche, industriali, finanziare. Il Paese è stato in parte venduto e in parte svenduto. Va detto però che nelle occasioni cruciali gli italiani hanno dimostrato di esserci e di comportarsi da cittadini nel rispetto delle istituzioni. Cito un esempio: la reazione agli attacchi terroristici negli “anni di piombo”, fino alla tragedia di Aldo Moro e della sua scorta. Una reazione coraggiosa, che costò molte vite e portò alla sconfitta del terrorismo. L’Italia, inoltre, è la patria del talento, spesso del genio, che forse ha dato al mondo più di quanto abbia saputo dare a sé stessa. Scriveva Natalia Ginzburg che “per le strade si sente circolare l’intelligenza, come un vivido sangue. È un’intelligenza che, evidentemente, non serve a nulla… Tuttavia, scalda il cuore e lo consola”.


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