La questione era già stata sollevata in estate, non senza imbarazzi, ed è tornata prepotentemente in voga in questi giorni in cui più di qualcuno si è accorto che tra i papabili beneficiari del reddito di cittadinanza ci sono anche italiani di etnia Rom. Una parola che qui da noi divide e per lo più spaventa i politici, contrapposti tra chi ne ha fatto un caposaldo della propria retorica "della ruspa" e chi, come la sinistra, ha troppa paura dei risvolti elettorali per prenderne davvero le parti. Stimati in circa 180mila nel nostro Paese, una discreta parte dei quali italianissimi e qui da secoli, per molti Rom con cittadinanza italiana (all'incirca 90mila) e per quelli residenti da almeno dieci anni, e che vivono in condizioni di povertà pressoché assoluta, con un Isee pari a zero, esistono tutte le condizioni necessarie alla richiesta del tanto ambito sussidio di povertà sponsorizzato dal Movimento 5 Stelle e avallato dalla Lega in nome del Contratto. Salvini, già nel corso dei primi mesi di governo, quando l'attenzione era tutta sulla improbabile natura della coalizione che ha dato vita alla maggioranza, aveva scorto in questa "falla" il principio del paradosso di chi, avendo fatto la campagna elettorale al grido di «prima gli italiani» si sarebbe poi trovato a votare un provvedimento che sostiene anche le famiglie di quella stregua che, a sentire lui, «non fanno un accidente dalla mattina alla sera, se va bene, o che rubano, se va male». Anche Di Maio, nel vociare di quei giorni, si era lasciato trascinare dalla corrente, affermando che «no!» nessun reddito sarebbe stato conferito ai Rom, ma «solo a cittadini italiani residenti sul suolo da dieci anni». Peccato, appunto, che molti Rom italiani rientrino in questa categoria e, sospettiamo – proprio perché italiani – a prescindere che vivano nei campi, o in situazioni di isolamento etnico, scarsa scolarizzazione, precarietà di servizi minimi e assoluta difficoltà di inclusione o che, come la stragrande maggioranza di loro (circa 70mila) in abitazioni convenzionali, sparsi per il territorio e mescolati a cittadini di altre etnie.
La questione quindi, più che formale o tecnico-giuridica, ha i connotati della propaganda e sconfina nell'aperta ignoranza. Negare il sussidio a persone che, per la legge, posseggono tutti i requisiti necessari, e per di più sulla base di pretesti etnici o sui pregiudizi che l'intera "categoria" gitana si porta in dote (anche grazie alle condotte criminali di cui diversi appartenenti si affidano per vivere) è una discriminazione che in Italia, stando all'attuale legislazione (senza scomodare la Carta dei diritti fondamentali dell'uomo e decine di risoluzioni internazionali a salvaguardia delle minoranze etniche) non è concesso portare avanti. Salvini, che questo lo sa benissimo nonostante giochi a fare lo "gnorri" additando con Rom una categoria di "parassiti sociali" (come se i criminali italiani delle situazioni di degrado e abbandono delle periferie differissero poi così tanto), si guarda bene dal riconoscere la realtà dei fatti e continua a rilanciare come il più navigato degli scommettitori, promettendo che «entro il 2023 non ci sarà più un solo campo Rom in nessuna città italiana». Come a dire, se li "de-Romizziamo" va tutto bene. A quel punto, anche gli abitanti del campo Rom di via Germagnano a Torino, che hanno accolto con trepidazione la possibilità di richiesta del sussidio, lasciandosi andare a esternazioni di giubilo al grido «Salvini è diventato nostro amico», potranno legittimamente festeggiare, si spera dai soggiorni delle case popolari che il ministro avrà riservato loro e non, come per i non aventi più diritto all'accoglienza del decreto sicurezza, dal bordo di una strada.
di Alessandro Leproux
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