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Beatrice Lorenzin: per ricostruire il Centro mettiamoci in ascolto dell'Italia migliore



«La vuole sapere la verità? Io, che sono sempre stata di centro, mi sono stufata di questa parola che ha perso significato per gran parte degli italiani». Beatrice Lorenzin è una ex di molte cose, come è naturale che sia per una persona che dal 1996 - una ragazza di Ostia di 25 anni, una somiglianza impressionante a Meg Ryan - si è dedicata a tempo pieno all’attività politica e in pochi anni ha macinato le tappe, arrivando a ricoprire il ruolo di ministro della Salute nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, dicastero dove è stata protagonista di una memorabile battaglia per l’obbligatorietà dei vaccini nelle scuole, che le ha tirato addosso le critiche feroci di no vax e grillini. Nel 2013 con la sospensione delle attività del Pdl Lorenzin separa i suoi destini da quelli della rinascente Forza Italia e con Angelino Alfano contribuisce alla nascita del Nuovo centrodestra. Nel 2017, in appoggio al Pd, dà vita alla lista “Civica Popolare Lorenzin” e nelle politiche del 2018, con pochissime risorse per la campagna elettorale, riesce ad ottenere circa 260mila voti, «sudati uno per uno, pancia a terra sul territorio, incontrando le persone». Insomma, ha cambiato sigle e partiti Lorenzin, ma è e rimane una moderata (anche se non priva di spunti corsari). E proprio forte di questo pedigree oggi ti dice, spiazzandoti non poco, che «in un paese in cui abbiamo il Termidoro senza avere avuto la Rivoluzione» è urgente e necessario «un bagno di realtà», «un nuovo linguaggio, una nuova geografia e una nuova radicalità del pensiero moderato, perché con i soli elementi della nostalgia non si costruisce niente di davvero forte e davvero duraturo». Conclusione della parlamentare: «Usciamo dall’eterno dibattito sulla costruzione di un grande centro, che poi, se va bene, si riduce a operazioni di piccolo cabotaggio senza nessuna ambizione ad essere maggioranza nel parlamento e nel paese, e mettiamoci invece in ascolto dell’Italia migliore, che c’è, nonostante tutto. Nonostante Salvini e Di Maio, ma anche nonostante Berlusconi. La dicotomia vera oggi passa – e lo dico a chi nel Pd accarezza ancora il dialogo col M5S – tra populisti da un lato e antipopulisti dall’altro».


Angelo Panebianco sul Corriere della sera pochi giorni fa ha detto che c’è nel paese una diffusa, inespressa, domanda di un nuovo partito di centro. E’ la richiesta, dice il politologo, sia di chi avversa questo governo sia di chi non è attratto dalle attuali opposizioni. Allora cosa manca per dar vita ad un centro che sia qualcosa di più del pochissimo e sparpagliato che appare oggi?

« Lo ripeto. Se dici “centro” la gente, i giovani, non ti capisce più; le persone in Italia sono arrabbiate e la comunicazione dei leader populisti è una comunicazione che aizza la rabbia. Fermiamoci un attimo a riflettere: è un anno che abbiamo questo governo e in un anno non abbiamo avuto un solo ragionamento rassicurante. E pure continuano a prendere voti».


Dunque?

«Dunque ci vuole molta credibilità, ci vuole anche un pensiero forte, alternativo e paradossalmente radicale. Portare del radicalismo nell’essere moderati, liberali e riformisti non è un ossimoro. E’ un ribaltamento del paradigma che in questi ultimi decenni ha visto le forze centriste sempre meno influenti e sempre più lontane dai bisogni degli italiani. Vede, le persone oggi votano per delle cose concrete, votano su dei bisogni, occorre quindi essere in grado di dare risposte credibili, forti, diverse anche nel linguaggio, rispetto a quelle dei populisti, ma capace di tenergli testa, di rispondere colpo su colpo a quella narrazione tossica che il sovranismo ha immesso nel corpo vivo della società italiana».


Queste risposta credibile da cosa dovrebbe partire?

«Da 4 questioni: la prima è il fisco, perché è evidente che il tema delle tasse e dell’abbassamento della pressione fiscale non può e non deve essere lasciato alle proposte semplicistiche e false di Salvini sulla flat tax. Secondo punto è l’idea stessa di democrazia, oggi pericolosamente messa sotto scacco dai i fautori interessati di una presunta quanto illusoria democrazia diretta. Terza questione è il welfare state, che oggi è gravemente in pericolo e alquanto malmesso; quarto tema è lo sviluppo: un paese che abdica dall’avere un orientamento sullo sviluppo non ha nessun futuro economico. E ci aggiungo una quinta questione quella dell’ambiente che è poi strettamente connessa con la salute. In Italia di fronte alla questione enorme del cambiamento climatico la nostra classe di governo e i “maitre a penser” del pentalieghismo non hanno trovato di meglio che sbertucciare in maniera perfino volgare Greta Thunberg. Questi punti che ho elencato sommariamente non possono essere calati dall’alto. E’ solo ripartendo dalla gente, dalle persone e dai loro bisogni che può nascere una nuova classe dirigente. Ci vuole tempo. Alle operazioni calate dall’alto sinceramente non credo più».


Da una parte un Pd che con la segreteria Zingaretti si candida ad essere il nuovo vecchio soggetto socialdemocratico, dall’altra, alleato ma distinto, un nuovo soggetto nell’area di centro moderato: la convince questo schema o è un disegno ancora una volta affetto dalle sindromi ingegneristiche della politica?

«L’area moderata se si riduce ad essere una sommatoria di storie rischia di essere una esperienza dal fiato corto. Ci può essere sicuramente uno spazio per i moderati e i liberali italiani ma deve essere qualcosa di nuovo e di fresco, che sia capace di una ripartenza. Non è una cosa dell’oggi a meno che non emerga una leadership talmente forte che faccia germinare il nuovo soggetto politico. Ma attenzione, parlo di una leadership che nasce dal basso e non con il pallottoliere o con qualche manuale Cencelli di terza mano. Servono personalità libere, capaci di interpretare la nuova fase».


Ma questa nuova leadership per il centro lei la vede o no?

«No, ancora non la vedo, ma questo non vuole dire che non ci sia sotto la cenere e che non emerga nella prossima legislatura. Nel senso che una leadership non la costruisci a tavolino, non arriva per immacolata concezione. C’è un mondo in fermento, fatto di giovani di movimenti, di associazioni, che aspetta solo di essere messo assieme. Sono mondi che da soli e da un punto di vista generale non hanno la forza per fare la differenza, ma se si riuscisse a connetterli, a metterli in rete, avrebbero una forza d’urto incredibile. Capace di fare massa critica e di dar vita a una nuova idea di centro. E con ciò all’emergere di un nuovo leader o di una nuova leader».


Dica la verita Lorenzin, si sta candidando alla leadership?

«No. M’interessa molto di più aiutare a costruire un progetto, vederlo fermentare e contribuire ad un confronto da cui poi nascano nuove leadership. Però già il fatto che si parli sempre di leader al maschile in Italia mi indispettisce. Il machismo circola coma un veleno in questo paese. I leader populisti sono machisti, reazionari, hanno un atteggiamento insopportabile nei confronti di tutto quello che è comprensione e dialogo, qualità tipicamente femminili. Ecco, una donna, anche da questo punto di vista, potrebbe affermare una modalità diversa di fare politica».


Onorevole se non capisco male il partito del 10 per cento che vada da pezzi di Forza Italia a pezzi del Pd, come auspicava giorni fa Casini, non scalda il suo cuore? Lei mira più in alto.

«A mio avviso me se vuoi fare una operazione politica devi farla con l’ottica di farla essere maggioritaria. Abbiamo bisogno di una forza politica alternativa che si basi sui valori delle tradizione liberale, riformista e moderata, ma che sappia interpretare questi valori con un linguaggio diverso e rispondendo a dei bisogni che tutti i giorni ci vengono dati dalla realtà . Bisogna rispondere alla chiamata della realtà, che è la cose più importante. E si risponde alla chiamata della realtà contemporaneamente volando alto, guardando e prevedendo gli scenari che si preparano sulle grandi questioni, e nello stesso tempo stando con i piedi ben piantati per terra, tra la gente, coltivando una nuova classe dirigente che sappia stare sui territori, che sia capace di mediare i conflitti. Il nodo oggi è se il Pd, a fronte della vocazione totalitaria della Lega, vuole essere un partito democratico a vocazione maggioritaria e che include tanto le posizioni classicamente socialdemocratiche quanto quelle liberali e moderate, oppure si vuole consegnare a una nicchia minoritaria».


Sul versante destro dello schieramento politico c’è un altro pezzo di centrismo oggi sotto scacco. Parlo dei moderati di Forza Italia. Berlusconi ancora insegue il miraggio del centrodestra unito. Non crede che così facendo stia consegnando il suo partito nelle mani di Salvini?

«Non capisco l’operazione di Forza Italia che continua ad essere una operazione spiaggiata sulla Lega. Invece di stigmatizzare il fatto che la proposta dei leghisti non ha niente di liberale e, quindi, niente di moderato e di centrista, invece di prendere atto che una fase della storia è finita, FI si è annientata in una coalizione che finirà per essere il partito unico di Salvini».


Ritiene che Berlusconi si sia consegnato all’abbraccio mortale della Lega senza avere una strategia di riserva?

«Sì e insieme a se stesso ha consegnato al populismo leghista quello che rimane dell’esperienza liberale e centrista italiana».


Lorenzin che effetto le fa sentire il ministro degli interni dire che quello della Sea Watch è un atto di guerra? Che la comandante della nave è una criminale. Non pensa che si sia superato il senso della misura? Che il valore delle vite umane sia diventato merce di propaganda? Il paese sta vivendo una crisi drammatica dal punto di vista economico sociale dei valori ma pare che la priorità del governo sia la caccia ai migranti.

«Queste dichiarazioni sono assolutamente debordanti, improprie, inopportune per un ministro degli Interni, sono invece il pane quotidiano di un leader populista che cerca il nemico, lo alimenta, lo enfatizza per fare dei migranti uno strumento di propaganda. Salvini gioca sulla pelle di 40 persone disperate sopra una nave, creando e alimentando un caso internazionale che tra l’altro ci porta anche ad una situazione di isolamento. E’ la sua una grande operazione di distrazione di massa. E’ da un anno che siamo alle prese con le vicende tra Salvini e la Sea Watch. Il tema della sicurezza non è tanto la presenza degli immigrati, ma la droga, gli spacciatori che vendono l’eroina a 5 euro il grammo e la cocaina a 10 euro. Abbiamo 750 nuove sostanze non codificate spacciate davanti alle scuole. Ma Salvini, a parte le pose muscolari contro i consumatori e qualche tweet contro i negozi di cannabis cosiddetta light, nulla ha fatto. Probabilmente i suoi responsabili della comunicazione gli hanno detto che su questo fronte non avrebbe raccolto molti consensi. Ma si rende conto? Tutto è diventato propaganda, dal rosario brandito come un’arma al dramma epocale delle migrazioni che richiede per essere risolto un concerto delle nazioni europee e non certo muri. La lega ha smesso di rappresentare il nord e cioè le piccole e medie imprese produttive dell’Italia ed è diventata un partito totalmente populista, il cui leader parla alla pancia del paese».


Da una parte il populismo in ascesa della Lega, dall’altro quello calante dei Cinque stelle. Come legge questo dato?

«Di sicuro c’è che Salvini è un animale politico molto più strutturato rispetto a Di Maio ed ha un partito che ha una struttura classica ricopiata su quella del vecchio Pci e in generale dei partiti della prima Repubblica, mentre i Cinque stelle restano un partito di opinione. Ma l’errore più grave del M5S è stato quello di aver preso tutti i dicasteri economici pensando che ne avrebbero lucrato. Salvini, che inizialmente si era tenuto lontano dai ministeri economici, oggi scarica l’inconcludenza delle politiche populiste sui suoi alleati di governo. Invade campi non suoi, ma con l’aria di chi purtroppo non può fare quello che vorrebbe perché gli altri remano contro... I Cinque stelle sono vittime di se stessi e di una struttura dirigenziale fuori dal mondo, basti vedere come stanno gestendo le vicende Alitalia-Atlantia e l’Ilva. Intanto, mentre Di Maio dice che va tutto bene, che lui ha una risposta pronta per ogni problema, il sistema industriale italiani si va desertificando sempre più».


Il capo politico del movimento è chiaramente in difetto di ossigeno. Pensa che Di Maio potrebbe nuovamente puntare sul volto rassicurante del M5S in vista di un possibile show down nel governo?

«Non lo escludo. D’altronde è tipico dei Fregoli della politica cambiare abito più volte durante lo stesso spettacolo. Ma appunto di abito si scena si tratta. Non bastano giacca e cravatta per collocarsi nell’area moderata, occorrono cultura politica e senso dello Stato. E quelli non li vedo proprio».


Forse l’unica cosa che riuscirà al movimento sarà quella di disarticolare il parlamento in nome della democrazia diretta. Come giudica il referendum propositivo che è già passato alla prima lettura delle Camere?

«Si tratta di una cosa gravissima, è l’ultima operazione di destrutturazione totale del nostro sistema democratico. Quando la mediazione della politica salta, quando i corpi intermedi vengono umiliati, rimangono solo il leader e il “popolo”. Se qualcosa non cambia andremo verso una deriva autoritaria, la cosiddetta democrazia illiberale che va per la maggiore nell’Ungheria di Orban».


Qualcosa potrebbe cambiare. Questo governo potrebbe rovinare su se stesso e sulle sue contraddizioni. Vede elezioni a breve?

«Temo che l’esecutivo continuerà ancora per un tempo non breve. Giorni fa leggevo un’intervista a Putin il quale sostiene che il liberismo è finito come le altre forme politiche del 900 e che, quindi, la nuova forza vincente nel mondo è il populismo nazionale. Noi abbiamo i populisti al governo e tutti gli altri - tutti noi che a prescindere dalle personali esperienze politiche e dalle rispettive appartenenze, abbiamo una visione della democrazia classica - siamo all’opposizione. Che voglio dire con ciò? Che questo è oggi il vero fronte che va costruito e rafforzato. Poi, quando il vino populista sarà tolto dalla tavola, beh ognuno di noi potrà seguire la sua strada».


Dalla Roma di palazzo Chigi alla Roma del Campidoglio e della giunta Raggi. Pochi giorni fa a casal Bertone papa Francesco parlando dello stato della Città Eterna ha usato le parole «degrado» e «abbandono».

«Il degrado materiale della città è davanti a noi. Uscendo di casa la mattina i romani devono subire lo spettacolo dei cassonetti debordanti di immondizia, dei topi che scorrazzano tra i rifiuti, dei pullman che prendono fuoco in pieno centro. E’ ormai un spettacolo quotidiano a cui non ci si può abituare. E’ una cosa che la Capitale d’Italia non merita, ma non la meritano nemmeno i cittadini romani che pagano una sovraliquota Irpef che vale circa 200 milioni di euro l’anno e hanno in cambio dei servizi totalmente inesistenti. Dal palazzo senatorio la sindaca Raggi lancia proclami rassicuranti ma non ci crede nemmeno lei. Nei prossimi giorni con un question time chiederò al ministro della Salute di fare una verifica puntuale con l’Istituto superiore di sanità per verificare lo stato igienico sanitario della città. E accanto a questo degrado materiale c’è un degrado morale, se possibile, ancora più grave: l’emarginazione delle periferie, le guerre tra poveri . La vera ferita di Mafia Capitale è avvenuta nei servizi sociali e non mi sembra che sia una ferita che la giunta Raggi abbia minimamente ricucito. La sindaca in questi mesi è andata avanti con un’azione solipsista, arrogante e presuntuosa. I risultati sono sotto gli occhi dei romani e del mondo e ci parlano della totale incapacità di governo e di visione della città. Raggi dovrebbe prendere atto del suo fallimento e avere il coraggio e l’onesta intellettuale di dimettersi. Per il bene di Roma e dei romani. Ma so che non lo farà».


di Giampiero Cazzato

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