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Brexit, la premier May sotto la tagliola del voto di sfiducia



Il Regno Unito rischia di precipitare nel caos. È indubbio che Londra sta attraversando il periodo più buio della sua storia. Stasera il premier Theresa May deve affrontare il voto di sfiducia. Il fronte dei conservatori contrari ha raggiunto le fatidiche 48 “lettere”, firme, necessarie a sottoporre la premier alla verifica del gradimento.

Servono 158 voti (su 315 parlamentari) per mettere al tappeto la leader. Non è un’impresa facile, ma non è impossibile, visto che l’opposizione interna a May è cresciuta nelle ultime ore: il suo viaggio a Bruxelles, snobbando il voto in Parlamento, ha aumentato la fronda dei critici. Prima del voto rinviato, risultavano alla conta almeno cento deputati, guidati da Boris Johnson e Jacob Rees-Moog, pronti a affossare la May.


Qualora dovesse superare anche questo ostacolo, rimarrebbe in sella per un anno, secondo le regole del partito conservatore. Ma se stanotte dovesse andare sotto alla conta, May perderebbe la leadership del partito e soprattutto del Paese. E allora il Paese avrebbe di fronte uno scenario di incognite. Intanto l’opposizione marcia in ordine sparso, divisa fra l’opzione delle elezioni anticipate e quella di un referendum bis come alternativa al caos e comunque polemica contro il nuovo limite del 21 gennaio per un nuovo voto di ratifica dell’accordo. Il leader laburista Jeremy Corbyn ha sparato a palle incatenate: “Basta rinvii e trucchi, il primo ministro permetta al Parlamento di votare o se ne vada”. La May è tornata dal tour europeo (all’Aia ha incontrato Mark Rutte, a Berlino Angela Merkel) senza nulla in tasca. Tante strette di mano, qualche parola di comprensione, ma nessun cambiamento rispetto alla linea ribadita dal presidente della Commissione europea, Juncker: l’accordo non si tocca, è l’unico sul tavolo.


Ed è quanto anche la Cancelliera Merkel le ha ripetuto. La May ha cercato di ridimensionare con la stampa l’esito fallimentare del viaggio tra le cancellerie europee. Ai giornalisti ha spiegato che i colloqui sono “solo agli inizi”, che gli interlocutori concordano sulla necessità di venirsi incontro. Lo spettro resta sempre l’entrata in vigore del backstop: il meccanismo vincolante di salvaguardia del confine senza barriere fra Irlanda e Irlanda del Nord visto come fumo negli occhi da molti deputati della lacerata maggioranza parlamentare britannica.

Sullo sfondo resta lo spettro di un no deal, un traumatico divorzio senz’accordo che fa paura a molti. Comunque vada a finire, il Regno Unito esce da questa vicenda fortemente ridimensionato nella sua influenza politica sullo scacchiere internazionale. È la seconda crisi di potere che Londra subisce. Se la crisi di Suez segnò la fine del sogno imperialista britannico, l’ambizione di considerarsi alla pari con Usa e Russia, la Brexit sconfigge la presunzione di comandare in Europa. Per il Regno Unito questo è un passaggio epocale nella sua storia. Qualsiasi sia l’esito, che l’uscita dalla UE avvenga in modo concordato o no, o che si vada a un altro referendum, Londra non sarà più la stessa.

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