Dopo il 1989, il gruppo dirigente si rifiutò di rifondare il Pci sulle basi della via socialdemocratica. Ne venne fuori un partito giustizialista e neoliberista privo di identità chiara. L’alleanza coi grillini non è il futuro.
“Goffredo Bettini è passato dall’intervista al Riformista a quella al Corriere della Sera, entrambe interessanti, ma a nostro avviso la prima è più esplicita della seconda. Sia noi che Bettini ci riferiamo allo stesso campo, quello del riformismo, ma al di là della comune espressione semantica le differenze sono profonde sia per la sua definizione, sia per quello che riguarda il suo sistema di alleanze, sia per quello che riguarda non solo la riflessione sul passato, ma anche quella sul presente e sul futuro. Ovviamente al centro dell’attenzione di Bettini c’è il Pd. Perché il Pd ha avuto e ha una vita così difficile e travagliata? Forse solo perché si tratta di “un amalgama male assortito” (cit. Massimo D’Alema). Già questa, se approfondita, è una risposta di notevole spessore. Siccome non crediamo alla leggenda secondo la quale le ideologie sono finite e le distinzioni destra-sinistra non hanno più ragion d’essere, allora non si può fare a meno di rilevare che storicamente i post-comunisti e la sinistra democristiana sono stati sempre portatori di valori, di ideologie, di culture, di strutture organizzative tutte di un certo spessore e anche di notevole diversità: questi retroterra consentivano e consentono un’alleanza politica, non certo un partito unico. Né è emerso, in quell’ambito, un leader la cui statura e la stessa elaborazione culturale sia in grado di andare oltre quei due perimetri originari. Per capirci, non è sorta fra quei due mondi una personalità della statura politica e culturale di Giuseppe Dossetti, l’unico in grado per carisma intrinseco, ma anche per l’elaborazione culturale di fondo (se ci andiamo a riflettere certe sue riflessioni sulla potenzialità rivoluzionaria di un nuovo Stato – vedi quello che scrisse in “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno” – e alcune pagine della rivista Cronache sociali) per esprimere una leadership complessiva che coinvolge i due mondi. Con tutto il rispetto tali non sono stati né Romano Prodi, né Walter Veltroni. Bettini rileva in questa come in altre occasioni l’assenza di un’autonoma forza propulsiva da parte del Pd in parte surrogata a ogni livello dalle organizzazioni di corrente che si risolvono però in faticose sommatorie fra materiali asimmetrici e disomogenei, la cui somma algebrica è sempre problematica e non necessariamente di segno positivo. A nostro avviso, tutto ciò deriva dal fatto che, venuto meno il comunismo nei suoi molteplici aspetti fra il 1989 e il 1991, che comunque almeno fi no alla metà degli anni 70 aveva avuto la forza del mito, del radicamento sociale, dell’organizzazione sul territorio, esso non è stato sostituito da una idea-forza altrettanto capace di suggestione progettuale e di mobilitazione sociale. A suo tempo proprio su questo terreno i miglioristi avevano avanzato una proposta positiva, cioè quella di rilanciare la scelta socialdemocratica e riformista, con i valori, le proposte programmatiche e il rinnovamento discendenti dalla vicenda storica avvenuta nel corso di tutti questi anni. Quella scelta, a suo tempo esorcizzata da Berlinguer, è stata anche dopo il 1989 rifiutata in modo assai netto da quelli che Pietro Folena ha chiamato “i ragazzi di Berlinguer”. A quel punto il cambio del nome avvenuto nel 1989 non ha potuto fondarsi neanche sul messianismo neoingraoiano, sognato dal movimentista Achille Occhetto, perché rifiutato un po’ da tutti – dalla destra comunista, dal centro e dalla stessa sinistra compreso lo stesso Ingrao che alla fi ne è uscito dal “gorgo” per “rifondare il comunismo” anche con Cossutta. Di conseguenza il cambio del nome si è risolto in un’abile operazione di realpolitik (cit. Massimo D’Alema). Ora, la realpolitik, anche quella gestita da abilissimi “uomini macchina” consente di seguire con il battello la corrente, non di guidare la nave avendo contro l’onda, alla scoperta di terre sconosciute, ma sterminate. Allora, sempre in nome della realpolitik e per seguire l’onda messa in moto nel ’92-’94 da un pezzo di magistratura, da un nucleo di poteri forti con giornali e TV al seguito che volevano tutti liberarsi della preponderanza dei partiti, “i ragazzi di Berlinguer” scartando l’ipotesi socialdemocratico-riformista hanno dato vita a un partito giustizialista e neoliberista. Così, non avendo voluto celebrare una Bad Godesberg politico-culturale per uno sbocco social-democratico che avrebbe anche dovuto reinventare quella vecchia casa attraverso forti iniezioni di liberal-socialismo ecco che “i ragazzi di Berlinguer” la loro Bad Godesberg l’hanno realizzata mettendo insieme quel giustizialismo che assicurava il rapporto preferenziale (con relativa protezione) con Magistratura Democratica e il neoliberismo di Repubblica e di alcuni gruppi finanziari ed editoriali. Abbastanza per comporre un partito repubblicano di massa, troppo poco per ricomporre un nuovo partito così corposo e dotato di tale spessore da essere comunque davvero erede di quello che è stato il più forte partito comunista d’Occidente. Per di più avendo dovuto partecipare alla distruzione non solo di Craxi, ma anche del Psi in quanto tale, il nuovo partito si è trovato anche senza un alleato degno di questo nome. Su questa costruzione così gelatinosa e sull’atipico bipolarismo che ha caratterizzato la cosiddetta Seconda repubblica è poi piombata la doppia crisi finanziaria del 2007 e del 2010 provocata dalla deflagrazione delle connessioni fra globalizzazione, finanziarizzazione, deregolamentazione con la conseguenza di quella distruzione di pezzi di industria manifatturiera, di ceto medio, di classe operaia americana, inglese e di parti dell’Europa che per reazione ha provocato sovranismo, populismo, nuova destra. Tutto ciò in Italia dal 2013 al 2018 si è tradotto nell’esplosione prima del Movimento 5 stelle e poi della Lega di Salvini. Ora, di fronte a una situazione così difficile e imprevedibile è del tutto ragionevole che una forza strutturalmente esile e contradditoria, ma anche tatticamente abile quale è il Pd (è l’estrema eredità di ciò che rimane del “puer robustus et malitiosus” allevato con amorevole cura da Palmiro Togliatti e consegnato ai posteri) abbia anche spregiudicatamente utilizzato l’occasione offerta dall’errore di calcolo fatto da Salvini l’8 agosto 2019 per provocare un rovesciamento delle alleanze e passare dal governo giallo-verde a quello giallo-rosso. Anche in quell’occasione, però, Renzi ebbe i riflessi più pronti di tutto il gruppo dirigente del Pd. Di qui un’alleanza per reciproco stato di necessità fra il Pd e il Movimento 5 stelle, ma essa può diventare strategica come sostiene Bettini che sta diventando una sorta di versione moderna di quell’indimenticabile Franco Rodano che è stato il teorico del compromesso storico, cioè dell’incontro strategico fra la Dc e il Pci? E, a parte il Pd, visto che si parla di intesa strategica il Movimento 5 stelle è in grado oggi in una situazione drammatica in cui si mescolano insieme pandemia e recessione di approdare ad una nuova e organica strategia delle riforme (l’unica strada in grado di dare una risposta positiva ed evolutiva a questo dramma), a buttare alle ortiche l’antiparlamentarismo, l’antipolitica, l’antiproduttivismo sia rispetto alla grande industria, sia rispetto alle grandi infrastrutture, lo sfrenato giustizialismo? Questo “superamento” sarebbe vitale e indispensabile per realizzare, a pandemia spenta, quella gigantesca ricostruzione tramite Recovery Plan che è o di stampo incisivamente riformista (e questa volta il riformismo qualitativo sarebbe sostenuto anche da una dose rilevante di risorse) o il tutto si vanifica provocando un autentico collasso. E un’operazione di questa fatta dovrebbe essere realizzata dall’attuale Pd e dall’attuale M5s sommati insieme con alla guida Enrico Letta e Giuseppe Conte? Ci permettiamo di nutrire rispetto a tutto ciò profondi dubbi. Ci fermiamo qui, ma le nostre preoccupazioni aumentano quando leggiamo quello che Bettini afferma sulla fase andata dal giugno del 2020 fi no al gennaio del 2021. Abbiamo l’impressione che noi e Bettini abbiamo vissuto in due paesi diversi. Per Bettini, che, chiediamo scusa, ci appare una sorta di moderno e sofisticato Pangloss, siamo vissuti con il migliore dei governi possibili. Secondo noi, invece, il governo Conte II dall’estate del 2020 in poi si è incagliato in una impasse e in un immobilismo imbarazzante, vitalizzato solo dalla droga mediatica distribuita a piene mani da Rocco Casalino, mentre Conte era perdutamente travolto dall’insana passione di conquistare i pieni poteri su una serie di snodi decisivi. Ora, di fronte a un’assoluta mancanza di iniziativa politica del Pd guidato da Zingaretti (che onore al merito è uno straordinario presidente della Regione Lazio), a nostro avviso è stata obiettivamente salvifica per tutti l’iniziativa politica di Renzi che ha fatto anche formalmente cadere un governo nella sostanza già morto e che ha dato vita ad un altro governo che costituisce una chance autentica per l’Italia sia per le qualità della persona che lo presiede, sia perché può darsi che spinga o costringa tutte le forze politiche che lo compongono a dare il meglio di sé stesse nella più difficile situazione affrontata dall’Italia dal 1945 ad oggi. Ciò detto, non c’è dubbio che di fronte ai limiti intrinseci all’asse strategico PD-M5s sostenuto da Bettini per evitare un pericoloso fallimento politico sarebbe indispensabile (a nostro avviso periodo ipotetico di secondo tipo) costruire ed aggregare un’altra versione del riformismo, quella storicamente espressa dai socialisti, dai miglioristi e dai laico-liberali. Goffredo Bettini annuncia un documento prodotto da un’area politica e culturale da lui coltivata, recentemente Marco Bentivogli ha dato vita ad una sorta di maratona dei riformisti, per parte nostra, con altri amici, stiamo lavorando a un documento fondato sulla ricostruzione della storia travagliata del riformismo e sugli artigli programmatici di cui esso dovrebbe essere fornito. Per parafrasare una frase famosa che era “socialisme ou barbarie” tenendo conto della tragedia costituita in Italia da circa 120.000 morti e dalla chiusura di tante aziende e negozi con tanti disoccupati, potremmo oggi parlare certamente con minore enfasi dell’alternativa “riformismo o barbarie”
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