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Cicchitto a 'Il Riformista': Il cambio di passo di Letta e la sfida di una forza riformista

Da una parte il Pd che, dopo le oneste dimissioni di Zingaretti, affi da il partito a una persona seria e preparata; dall’altra le forze che si dicono riformiste ma che faticano a stare insieme. A meno che la legge elettorale...




“Negli ultimi mesi del 2020, per usare una frase famosa, il governo Conte ha perso tutta la sua forza propulsiva sia sul terreno del contrasto alla pandemia sia su quello della politica economica immediata e ancora di più sulla elaborazione, progettazione e messa in atto del Recovery Plan. Conte ha avuto il massimo di visibilità e di forza politica nella fase che va dal suo discorso in Senato nell’agosto del 2019 a quella in cui il governo ha realizzato il primo lockdown, da marzo a maggio. Poi il governo non è più riuscito a gestire né la pandemia né tutto il resto in termini dinamici e positivi. Per di più il presidente del Consiglio Conte è apparso concentrato solo sul tentativo di tradurre gli ottimi sondaggi nel suo potere personale, dalla gestione dei Servizi, alla concentrazione in una sola persona di sua fiducia degli approvvigionamenti sanitari, addirittura al tentativo di gestire in solitaria il Recovery Plan. Questa involuzione non è stata per nulla contestata da Zingaretti, a nostro avviso per due ragioni di fondo. In primo luogo va detto che Zingaretti è un ottimo presidente di Regione, ma che il mestiere di segretario di un partito così complesso come il Pd esula del tutto dalle sue capacità reali. Per di più egli è stato frenato dall’entrare in una qualche collisione con Conte, perché soverchiato dal disegno portato avanti dal suo maître a penser Bettini e dal nucleo post-comunista della sua maggioranza. Bettini aveva il disegno di dare uno sbocco di sinistra al Pd, secondo storiche suggestioni dell’ingraismo e del berlinguerismo, costruendo una sorta di larga area di “nuova sinistra” attraverso una sostanziale convergenza strategica con il Movimento 5 stelle. Questa operazione vedeva Conte come uno dei suoi protagonisti, e allora non poteva disturbarlo nella gestione personale del potere e del governo. A quel punto però il governo e la stessa coalizione hanno rischiato l’impasse totale. In assenza di una iniziativa politica del segretario del partito quel vuoto è stato riempito da Renzi che ha contestato il disegno di potere di Conte, ma anche l’impasse in cui era caduta il suo governo. Il fatto che una parte del Pd invece era del tutto affascinata dal progetto di costruire una sorta di nuova sinistra fondata sui dem e sui cinque stelle - che è cosa molto diversa da una coalizione di governo fra diversi - è dimostrato dal fatto che la prima risposta a Renzi è stata: “Conte o voto” e che addirittura il Pd ha consentito a Conte e a Casalino di tramutare il Senato in una sorta di suk. Adesso, con il ritmo dei media e dei social tutto viene rapidamente dimenticato, ma in Parlamento sono stati vissuti giorni di tregenda dominati dal ruolo inusitato di Tabacci, di Maria Rosaria Rossi e di Ciampolillo e di altri “costruttori” impegnati in operazioni simili a quelle che avvenivano fra il 700 e l’800 nei porti inglesi per agganciare nelle bettole marinai mezzi ubriachi e trascinarli sulle navi che dovevano completare la loro ciurma. Per tutta una fase, una parte almeno del gruppo dirigente del Pd ha dimostrato di aver perso il bene dell’intelletto perché anche qualora un’operazione del genere fosse riuscita sul piano numerico essa si sarebbe risolta in un autentico disastro sul piano politico, programmatico e gestionale visti i compiti assai impegnativi che erano sul tavolo: il contrasto alla pandemia con una vaccinazione di massa, una politica economica antirecessiva sostenuta dai mercati anche perché resa credibile dal livello tecnico di chi la gestiva, l’elaborazione e la messa in atto di un disegno incisivo per il Recovery Plan. A quel punto comunque l’operazione si è incagliata sui numeri, ma non nelle intenzioni reali di una parte del Pd che ha sperato - visto che il presidente della Repubblica Mattarella scartava giustamente elezioni anticipate in un paese martoriato dal contagio - che l’incarico fosse affidato all’avvocato del popolo e che il parlamento così pressato avrebbe regalato al duo Conte-Casalino lo spostamento di un’altra decina di “marinai”. Fortunatamente, però, Mattarella non ha dato alcuno spazio a questa ipotesi insieme avventurista e trasformista e ha aperto una fase del tutto nuova dando l’incarico a Draghi per un governo di salute pubblica, aperto anche alle forze di centrodestra. Mattarella, essendo Conte oramai del tutto usurato, ha messo in campo l’unica personalità tecnico-politica di livello internazionale che oggi ha l’Italia e che ha espresso nei suoi discorsi parlamentari un progetto rigorosamente riformista ed europeista. Altro che l’opera autoritaria su cui stanno delirando Gustavo Zagrebelski e Sandra Bonsanti. Può piacere o non piacere, ma oggi l’Italia dipende totalmente dall’Europa, non solo dall’Europa per il Recovery Plan, ma dall’Europa per la Bce, senza gli acquisti della quale oggi noi saremmo in mezzo a un disastro. Il punto fondamentale è che, per l’ispirazione di Mattarella, Draghi, con l’appoggio di ministri quali Daniele Franco, Renato Brunetta, Giancarlo Giorgetti, Maria Stella Gelmini, Marta Cartabia sta portando avanti l’unico progetto rigorosamente riformista che l’Italia ha espresso in questi ultimi anni. Non nascondiamoci dietro a un dito. Draghi da un lato ha messo in condizione di non nuocere l’assistenzialismo populista di parte del Pd e di larga parte del M5s; dall’altro lato ha messo un coltello alla gola di Salvini che ha dovuto fare buon viso a buon gioco: vale a dire ha dovuto raccogliere l’intimazione che gli ha fatto anche un bel pezzo del Nord perché sostenesse il tentativo di Draghi. A quel punto va dato atto a Zingaretti della sua onestà intellettuale: egli ha capito che non era più il segretario adatto a guidare un Pd diviso in bande nella nuova e molto impegnativa fase politica, avendo per di più alle spalle il tentativo fallito, politico e strategico, messo in atto insieme a Bettini e a Conte. Con le dimissioni improvvise, ma serie di Zingaretti siamo stati al limite del collasso, anche perché si era verificata una paradossale asimmetria fra un centrodestra fi n troppo inserito nel gioco, un Pd in preda ad una crisi di nervi e un Movimento 5 stelle alla ricerca di un ruolo perduto. Per molti aspetti la scelta di ricorrere ad una singolare fi gura di un “papa ambivalente”, mezzo italiano e mezzo straniero, è stata insieme una mossa disperata, ma geniale che ha consentito di uscire dall’impasse. Ora, in una situazione generale così drammatica, già di per sé la fi gura di Enrico Letta con la sua serietà, la sua preparazione culturale, il suo radicamento in Europa è un elemento di stabilità. Un Pd guidato da Enrico Letta dà comunque la garanzia di esprimere una leadership, di rispondere in modo adeguato al rigoroso riformismo e all’europeismo di Draghi. Ma non possiamo fare a meno di dire che su alcuni punti il discorso di Letta non ci ha convinto. In primo luogo, non ci ha convinto la scelta sostanzialmente per il maggioritario, che rischia di mettere troppo potere politico nelle mani da un lato del M5s e dall’altro lato della Lega. Ancor meno ci convince la proposta dello ius soli: nel merito lo ius soli, a nostro avviso, è un automatismo forzato, mentre lo ius culturale davvero può motivare in termini genuini l’acquisizione di una cittadinanza. Ma al di là del merito, davvero qualcuno può credere che nel bene e nel male oggi la gente si mobiliti pro o contro lo ius soli e che attraverso di esso il Pd riconquisti l’anima perduta? Questi rilievi hanno un’altra implicazione: a nostro avviso il quadro politico andrebbe riequilibrato da un rafforzamento di una linea riformista di centro rispetto all’imprevedibilità di quello che può emergere dalla crisi del Movimento 5 stelle e dai sogni onirici di stampo post berlingueriano-ingraiano che possono appassionare un pezzo del Pd. Le forze riformiste di centro esistono in parte dentro, in parte fuori dal Pd. Verrebbe da dire: o tutte dentro o tutte fuori, ma si tratterebbe di un’alternativa insieme giusta, ma astratta. Però le forze riformiste collocate fuori dal Pd dovrebbero darsi almeno un programma minimo, quello di evitare il ridicolo. Ci riferiamo a Italia Viva, a Più Europa, a Calenda, allo stesso Psi di Nencini e di Maraio. Sappiamo che a parte il Psi, Bonino, Calenda, Renzi vivono se stessi e la loro impresa politica come altrettanti Napoleone e concedono agli altri interlocutori co[1]me massimo (prescindiamo qui dalle differenze di sesso che in questo caso non contano) di svolgere il ruolo del gen. Murat. Tuttavia, a parte la questione di non poco conto di quale sarà la legge elettorale, si sente certamente il bisogno di un’aggregazione fra forze riformiste omogenee nella sostanza. Conosciamo anche per esperienza quella che Gramsci chiamava “la boria di partito”: adesso rischia addirittura di essere più accentuata “la boria di partitino”, ma ci auguriamo che a un certo punto la necessità si tramuti in una virtù.”

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