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Claudio Baglioni, Twitter e l'ira funesta dell'homo social: un viaggio ai confini della ragione



Una volta, uno che di popoli se ne intendeva disse che «per poter conoscere l’indole dei popoli non conviene paragonarli nei momenti normali ma quando, sciolti da ogni freno, si trovano in assoluta balia del loro istinto». Regista indiscusso del Risorgimento italiano, fine politico e quindi grande conoscitore del comportamento delle masse, Camillo Benso Conte di Cavour, con questa perla finita negli almanacchi degli aforismi da sfoggiare nelle sempre più frequenti sessioni narcisistiche da social network, non ha solo splendidamente colto nel segno, riducendo in poche lettere una verità indissolubile e vecchia come il mondo, ma ha fornito ai posteri la strumentazione adatta per una valutazione "scientifica" dello stato di salute di un popolo. Se è infatti zeppa la storia di casi di più o meno dilagante anarchia, episodi solitamente coincidenti con intermezzi temporanei in cui ad un potere se ne sostituiva un altro, periodi di vacanza e incertezza in cui le regole le facevano i più forti o i più brutali e in cui l'istinto prevaleva sulla ragione, nemmeno un uomo dotato della visione di Cavour avrebbe potuto immaginare che, appena un secolo e mezzo dopo, i tempi sarebbero stati maturi per l'avvento dell'homo social. Proprio perché svincolata dalle leggi del vivere civile che tengono insieme la società, questa vasta quanto intangibile prateria del web, una landa inesplorata di cui non siamo che pionieri alle prime armi, ha creato le condizioni idonee al paradosso dell'assenza di regole all'interno di uno spazio circoscritto. Già, perché anche nella più scellerata e animalesca delle società pensabili, la legge del più forte prevarrebbe sulle altre. Anche nella più violenta delle rappresentazioni possibili, in un ipotetico Far west, il più forte che schiaccia il più debole fungerebbe da paradigma comportamentale. Con l'avvento dei social network anche questa flebile differenziazione è andata a farsi benedire: che sia Facebook o Twitter o il blog di Nonna Pia non fa differenza, sui social regna l'uguaglianza spietata, senza nome e indirizzo, regna il caos. Non ci sono deboli, non ci sono prede. Nel popolo del web esistono solo cacciatori, vincenti e temerari. Non si conosce paura o pena, rimorso e pentimento non sono vocaboli replicabili. Esiste solo un'agorà fatta di pixel e banner, a loro volta fatti di stringhe e numeri, in cui questa pericolosa, nuova categoria si sente legittimata a partorire qualsivoglia idea o concetto, senza freno, senza necessità alcuna di una logica a fondamento di quanto si espone. Il puro, mero istinto di cui parla Cavour. E ciò è ben comprensibile se si riduce tutto al fatto che è l'assenza di conseguenze tangibili (nella vita reale) a fomentare certi atteggiamenti. I famosi "leoni da tastiera" sono la punta della piramide alimentare di questo mondo perverso e fagocitano tutto, indistintamente, consci che a una loro azione, a prescindere dalla sua qualità, non corrisponderà una conseguenza diretta. È uno spietato gioco a ribasso, un tiro al bersaglio che fa vittime e non lascia colpevoli. E prima o poi, volenti o nolenti, dentro questo tritacarne mediatico ci finiscono tutti: l'unica pecca è portare un pensiero non conforme o semplicemente il proprio, di pensiero, per finire alla gogna come il povero artigiano Aronne Piperno nel capolavoro di satira sociale di Monicelli.

E questa volta, a fare le spese di tanta gratuita e insensata cattiveria, è un personaggio pubblico, cantante e riscoperto presentatore televisivo. Non avrà unificato l'Italia, ma a Claudio Baglioni è comunque riuscito l'arduo compito di unificare i telespettatori e riportarli su RaiUno per seguire il Festival di Sanremo, opera non così scontata visti i costosi fallimenti di gestioni a lui precedenti. E visto il successo della prima edizione, dalle parti di viale Mazzini si è pensato a un doveroso bis. Il fattaccio è avvenuto al termine della conferenza stampa di presentazione della sessantanovesima edizione della competizione canora, quando Baglioni ha avuto la terribile idea di definire l'Italia «un Paese incattivito, rancoroso», che guarda con «sospetto» anche la propria «ombra». Se il cantautore romano sia anche un appassionato sociologo non ci è dato saperlo, ma sta di fatto che la violenta ondata di insulti, per non dire minacce, piovutegli addosso in ogni spazio social che portasse il suo nome, è continuata indisturbata per molte ore in seguito alle dichiarazioni. La colpa di Baglioni, già detto, quella di aver espresso una propria opinione (per altro molto aderente con l'ultima rilevazione del Censis, quindi non esattamente campata in aria). Il ventaglio di insulti e offese che si è aggiudicato, oltre a non essere replicabile per motivi di spazio e decoro, ha come oggetto principale il suo lauto cachet e la conseguente ipocrisia che deriverebbe dal parlare dal piedistallo. Anche il "capitano" Matteo Salvini, idolo dei social, per cui in migliaia (almeno a digital-parole) darebbero la vita (sempre quella digitale, pensiamo noi), si è sentito in dovere di replicare al conduttore del prossimo festival, sentendosi punzecchiato nell'orgoglio quando Baglioni se l'è presa con la gestione della questione migratoria da parte del governo gialloverde e, tra le righe, del titolare del Viminale. Un bel «Canta che ti passa, lascia che di sicurezza, immigrazione e terrorismo si occupi chi ha il diritto e il dovere di farlo» è il contenuto del tweet del vicepremier leghista (almeno lui la faccia a corredo del post ce la mette). Lungi dal voler avventurarsi nella spinosa giungla della coerenza, di cui Salvini sembra avvalersi a corrente alternata, lo sfogo social del ministro ha senz'altro contribuito al selvaggio scempio della lingua recapitato dal popolo degli ominidi da tastiera al conduttore e cantante e già questo, per chi fa della comunicazione una ragione di vita e si presume abbia a cuore la condotta del popolo che è chiamato a governare, rappresenta un discreto autogol. Ma non è certo solo il capo politico del Carroccio in questa battaglia di inciviltà. Politici, attori, calciatori, personaggi pubblici dalle più alte alle più basse sfere, persino tutti noi: chi per una volta non si è sentito in dovere di dare lezioni a qualcuno nella calda e rassicurante (e impunita) atmosfera ovattata dei social. Chi, magari belando nella vita, non ha voluto ruggire almeno una volta tutto il suo sdegno, prendendosela col più debole o semplicemente col diverso. L'assenza di regole, di principi, di dirette conseguenze alle proprie azioni è una palude in cui è difficile muoversi senza essere contagiati, un acquitrino in cui sprofondare è pericolosamente facile e in cui tentare di far filtrare il lume della ragione diviene una missione quasi impossibile.


«La libertà non è star sopra un albero Non è neanche avere un'opinione La libertà non è uno spazio libero Libertà è partecipazione»


Un genio della nostra canzone come Giorgio Gaber lo aveva capito, la libertà comporta delle scelte ed è in base a quelle che si può determinare il grado di salute di un popolo. Non scegliere è anch'essa una scelta, tristemente in voga di questi tempi.


di Alessandro Leproux

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