Brachino so che si è occupato del caso Palamara anche professionalmente. Che opinione si è fatta delle rivelazioni contenute nel libro intervista di Alessandro Sallusti “Il Sistema”?
Molte di quelle cose le sapevamo qua e là, ma la lettura di quel libro è stata sconvolgente. Ci siamo ritrovati messa per iscritto, in una forma dialogica tradizionale domanda-risposta, tutta una serie di cose che sembrano una fiction o un romanzo dell’orrore e ritrovi compensate con tanta precisione dentro una lunga confessione. Abbiamo capito che esiste un Sistema. Lo abbiamo visto formalizzato. Lo avevamo già capito dall’angolo visuale della nostra professione. E’ un rapporto, quello fra la politica e la magistratura, che avevo vissuto in prima persone come direttore delle testate Mediaset. Quelli della famiglia Berlusconi sono stati anni durissimi, vissuti giornalisticamente da Mediaset intorno al rapporto con la magistratura. Palamara era dall’altra parte. Si intuiva che c’erano degli accordi, che c’erano delle correnti, che c’era un’utilizzazione della giustizia non a fini giudiziari. Noi ci aspettiamo che la giustizia sia giusta e equanime. Abbiamo visto che di fatto non lo è. Abbiamo visto che risponde a esigenze che sono qualche volte ideologiche, qualche volta di opportunismo o semplicemente quelle del potere. E’ un problema che va avanti da Tangentopoli. Anno di grazia 1992. Sappiamo che c’è una ferita aperta nel rapporto fra la società e la giustizia, fra la politica e la giustizia, che non si è mai rimarginata.
La confessione di Palamara poteva essere lo spartiacque?
Io credevo che Palamara e il libro di Sallusti fossero una sorta di pietra miliare. Chiudiamola qui. Facciamo una Commissione d’inchiesta e cogliamo questa occasione per creare un contesto nuovo, per riformare ciò che c’è da riformare. Mi sembra che da questo punto di vista la situazione sia molto deludente.
Hanno cercato, e stanno ancora cercando, di fare di Palamara l’unico capro espiatorio di un Sistema di cui evidentemente era, per quanto importante potesse essere, solo un ingranaggio. Una tipica scappatoia all’italiana?
Sicuramente sì. Tutto sta a dimostrarlo. Dal trojan all’utilizzazione di certi altri mezzi. Addossare a una sola persona la colpa di un sistema, quando è solo un membro del sistema e non evidentemente tutto il Sistema, è classicamente una scappatoia all’italiana. Palamara, però, si è ribellato da un punto di vista civico e ha detto, secondo me, solo una parte di quello che sa. Quella parte, che ha rivelato, è stata sufficiente per delineare un quadro chiaro di quel mondo con cui lui ha prima convissuto e poi ha scoperchiato. Un mondo che poi è andato in frantumi. Abbiamo visto altre violenze, altre guerre, altre forme di orrore nel mondo della giustizia, che onestamente devono essere assolutamente sistemate e risolte.
La scelta di Palamara di candidarsi alle elezioni suppletive per la Camera dei Deputati nel collegio di Roma Primavalle è, secondo lei, comprensibile e, se sì, in quale misura anche condivisibile?
Per i tempi la sua candidatura mi ha sorpreso. Avevo moderato un convegno con Palamara come protagonista alla fine di luglio e non mi sembrava fosse nell’aria. Pensavo certo che da qualche parte la sua esperienza personale dovesse portarlo. Non so quanto sia possibile, dopo il processo che lo vede imputato a Perugia, un recupero della sua presenza nella magistratura e il ripristino della sua carriera. Come era inevitabile, Palamara con il libro è diventato un soggetto politico. Un libro che è diventato un caso. Un caso editoriale e un caso politico. Se ne sono occupati tutti, ne hanno parlato tutti, non è stato possibile nascondere niente. Un ex magistrato che racconta una cosa clamorosa, diventa, come naturale conseguenza, un soggetto politico. Il passaggio alla politica, nel caso specifico legato all’elezione suppletiva in un quartiere di Roma, mi ha, però, sorpreso molto. Condivisibile? Ho sempre pensato che il destino di Palamara sarebbe stato in politica. Non sapevo dove e come. Lui ha scelto questa strada, Credo che possa tranquillamento parlare e proporsi alla gente con un suo progetto. Leggendo le interviste che ha rilasciato, vedo che si parla ancora molto di giustizia, di trasparenza, del riflesso della giustizia sulla vita dei cittadini. Sono cose importanti e in qualche modo decisive per la nostra vita, ma poi, come sa, un progetto politico è fatto di tante altre cose. In un collegio, per quanto di dimensioni ridotte se rapportate a una grande città come Roma, come è quello di Primavalle, i cittadini hanno bisogno di regole economiche, dell’habitat, della sicurezza e di tante altre cose. Palamara politico lo dobbiamo vedere all’opera. Penso, però, che ci troviamo di fronte a uno sviluppo totalmente logico di quella che è stata la sua storia professionale.
Al di là delle urgenze del collegio romano di Primavalle, una voce, che parla delle urgenze delle giustizia italiana da un banco di Montecitorio, non potrebbe tornare utile?
Sicuramente sì. Io pensavo potesse ambire a un ruolo istituzionale diverso, magari ancora più ampio. Palamara è una persona competente che, a fronte del passaggio etico e formale nell’inchiesta che lo riguarda, può sicuramente mettere a disposizione del sistema, nel senso buono della parola, del sistema istituzionale intendo, tutto quello che sa. La riforma della giustizia non è ancora completa. Con la riforma Cartabia non abbiamo certo risolto tutti i problemi. Abbiamo solo dato una prima risposta all’Europa e anche agli italiani su un mondo che non funziona più. Non è una pretesa ideologica. La giustizia deve funzionare. Deve essere una cosa in cui crediamo veramente. Tutto quello che abbiamo letto nel libro di Palamara, invece, ci allontana. Come ci hano allontanato dalla giustizia le vicende che abbiamo vissuto negli ultimi trenta anni. Ora questo rapporto, che vive tuttora una crisi senza precedenti, va recuperato. In questo senso Palamara può essere d’aiuto, dentro n una riconversione morale che parte dalla sua storia, a ripristinare un clima di fiducia e una credibilità della giustizia italiana, che sembravano irrimediabilmente compromesse.
di Antonello Sette
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