Una manovra che fa leva su Parigi. È la protesta dei gilet gialli, che ha costretto “En marche” di Emmanuel Macron a farsi di fatto “retro marche”, il potente richiamo che evoca, senza nominarlo direttamente, il premier Giuseppe Conte nella sua informativa alla Camera sulla manovra prima del responso della Ue. Il cuore del discorso del premier, che domani è atteso al bivio dai vertici europei, è tutto qui. Non nomina la Francia esplicitamente ma è come se lo facesse. Perché il senso del suo messaggio è chiaro: o si accetta questa manovra che viene “incontro a disagio e povertà” oppure poi sarà dura fermare rivolte e instabilità destinate a crescere. Potrebbe sembrare un ricatto, e se anche lo fosse non suona esattamente così perché Conte ci mette tutta la sua arte retorica un po’ “democristiana” nell’illustrare il suo concetto. E comunque è di fatto un muro contro muro con la Ue, seppur annunciato con dei “margini ancora aperti”. Evidentemente la linea a difesa a spada tratta della manovra con tanto di conferma dello sforamento del deficit è stata concordata con i vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i due grandi azionisti del governo. In ogni caso il premier, alla vigilia del fatidico incontro di domani 12 dicembre con il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker, questo testualmente dice quando conferma che il governo non si scosterà dal deficit che invece chiede la Ue: «Non lo facciamo a cuor leggero, ma per realizzare gli obiettivi che gli italiani chiedono con prepotente urgenza. Logorare l’azione riformatrice del governo sarebbe una strategia miope». Poi, si intravedono chiaramente sullo sfondo della sue parole i gilet gialli quando avverte che il niet di Bruxelles (nonostante lui si dica ancora “fiducioso”) con la conseguente procedura d’infrazione, «rappresenterebbe agli occhi dei cittadini un tentativo velleitario di reprimere istanze che rimarrebbero vive e pulsanti nella nostra società e che potrebbero ripresentarsi in un prossimo futuro in forme e modi che difficilmente potremmo prevedere e per quello più faticosamente da soddisfare. Il rigorismo miope provoca instabilità». Conte sottolinea che i «cittadini il 4 marzo hanno espresso l’esigenza di arrestare l’impoverimento dovuto al ciclo avverso della lunga crisi economica e per contrastare i fenomeni negativi di globalizzazione che ha visto penalizzare ampie fasce di popolazione». È la visione di un premier che fin dal giorno del suo insediamento rivendicò per sé l’aggettivo “populista” e si definì “l’avvocato del popolo”.
Insomma, l’avvertimento è: non fate come Macron che poi è dovuto tornare indietro e ora non si sa se gli basterà. Un deputato leghista, nei corridoi di Montecitorio, definisce quello di Conte «un gran discorso che tiene il punto sui nostri capisaldi quota 100 e reddito di cittadinanza». E invece per il parlamentare del Carroccio «Macron ha sbagliato proprio tutto: è intervenuto troppo in ritardo e ha fatto un’eccessiva marcia indietro rispetto al programma iniziale, autorizzando così di fatto chiunque domani a mettere il gilet giallo». Di Francia esplicitamente parla il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti il quale avverte che se Oltralpe si stanziano risorse importanti in termini di assegni sociali dopo le proteste e i disordini, «in Italia ci ha già pensato qualcuno a farlo senza disordini di piazza, questo è oggettivo». Per cui Giorgetti a fronte di «una Francia che ha sforato il 3 per cento del rapporto deficit-Pil serve ragionevolezza. E da parte nostra c’è». Moniti, invocazioni da un governo che però, come del resto lo stesso Conte ammette, si prepara tutt’altro che a “cuor leggero” all’ultima sfida con la Ue. Perché se sarà pur vero che una volta scattata la procedura d’infrazione il niet europeo potrebbe essere usato come arma della campagna elettorale di maggio, certamente il rischio di un innalzamento dello spread e tutte le dure conseguenze sui mercati sono cose che non possono non far tremare le vene ai polsi del governo giallo-verde. Renato Brunetta, responsabile economico di Forza Italia, va giù duro ma quasi sembra implorare Conte, spiegandogli che il problema non è il deficit, (che la Ue chiede a 1,9 e viene dato invece oscillante tra il 2,4 o il 2,2 fino a un 2 per cento che però sembra che solo la Lega potrebbe accettare, ndr), ma «di cambiare la qualità della manovra». Dice Brunetta al premier: «Io non le dico di tirare dritto perché perderebbe l’Italia. Ma dire di sì a tutto sarebbe sbagliato anch’esso, perché sarebbe un’accettazione pro-ciclica di una recessione in atto. L’invito che le faccio è di cambiare la qualità della manovra: tenere i saldi, 2,4; 2,2 cambia poco, il problema è destinare invece tutte le quelle risorse allo sviluppo, per la crescita e contrastare la recessione». «Ha ragione Conte: non è un libro dei sogni ma il peggiore degli incubi», taglia corto Giorgio Mulè, portavoce unico dei gruppi azzurri. Eppure Conte si appresta ad andare a Bruxelles tentando di rassicurare: «I margini ci sono ancora». Secondo indiscrezioni di Palazzo, ci sarebbe da un lato la Lega disposta a scendere anche sotto il 2,2 per cento del rapporto deficit/Pil e invece dall’altro lato a questo non sarebbero disponibili i 5 stelle, che, oscurati dalla Lega, vorrebbero alzare l’asticella per intestarsi la battaglia con la Ue. Comunque sia, come ribadisce il ministro dell’Economia Giovani Tria, in partenza con Conte per Bruxelles, il deficit va tagliato. Ma “la soluzione è politica”. Questa è una manovra che fa leva sulla Francia innanzitutto. Avverte Salvini da Gerusalemme: “Mi auguro che da Bruxelles usino il buon senso. Sarebbe inaccettabile avere due occhi chiusi per Macron e sanzioni incredibili e impensabili per l’Italia”. Ma forse il richiamo al buon senso in queste frenetiche ore verrà fatto anche tra contraenti di governo.
Ma proprio mentre il governo è alle prese con lo scoglio-manovra si riaprono tensioni tra Cinque Stelle e Lega. Ad aprire il fronte a freddo è lo stesso Luigi di Maio che chiede “chiarimenti” a Salvini sulla vicenda dei fondi del Carroccio. «Basta attacchi giacobini», è la reazione non ufficiale che si registra dentro una Lega irritatissima, dove si fa notare: «Noi invece lealmente lo abbiamo difeso nella vicenda del padre». Ma Salvini dà ordine ai suoi di non replicare. Si limita a rispondere secco all’altro vicepremier: «Io non minimizzo niente. Sono sereno. Dico solo che siamo l’unico partito con i fondi bloccati, l’altro precedente è in Turchia».
di Paola Sacchi
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