Mettiamola così: Giuseppe Conte è rimasto prigioniero del suo ultimatum. Mancano 10 minuti circa alla 19 quando il premier dalla Sala dei Galeoni di Palazzo Chigi, pronuncia quella frase che dovrebbe essere il rude aut aut ai suoi vice, o, meglio a Matteo Salvini, ovvero al presidente del Consiglio ombra che dopo il voto europeo ha schiacciato la pallida, questa sì davvero ombra, di quello che doveva essere l’avvocato del popolo. «Di Maio e Salvini ci dicano se vogliono andare avanti». Chiede Conte «una risposta chiara, in equivoca e rapida». Quanto a lui, sottolinea, resta «disponibile a lavorare nella massima determinazione di un percorso di cambiamento. Ma non posso compiere questa scelta da solo. Le due forze politiche devono essere consapevoli del loro compito». Perché «non vivacchio, o si va avanti o rimetto il mandato», scandisce. Sono i passaggi cruciali di un intervento che era stato preparato da ieri pomeriggio con un gran battage mediatico: a chiusura dei mercati, perché chissà quali effetti avrebbe potuto avere. Domani vedremo come l’ha presa la Borsa, per ora possiamo solo dire che Salvini non è apparso minimamente scalfito dalla perentoria richiesta. Dunque le dimissioni e le conseguenti elezioni, sventolate, minacciate ed evocate da Conte come estrema ratio per abbassare le pretese della Lega non hanno colpito il bersaglio nemmeno di striscio. Se voleva indurre a più miti consigli Salvini bisogna dire che il premier ha fallito. Il soufflé preparato nelle cucine di palazzo Chigi si è smosciato appena uscito dal forno.
Il boccino lo ha in mano il Capitano. E lui lo sa bene. Come sa che il suo omologo “dimezzato”, Luigi Di Maio, tutto vuole in questo momento meno che far saltare il tavolo e andare alle urne. Affronto nell’affronto, Salvini risponde a Conte via facebook. A leggere al premier le parole del responsabile del Viminale è un cronista, in piena conferenza stampa: «Noi non abbiamo mai smesso di lavorare, evitando di rispondere a polemiche e anche insulti, e gli Italiani ce lo hanno riconosciuto con 9 milioni di voti domenica. Proprio oggi ad esempio ho inaugurato col governatore Zaia il primo tratto della Pedemontana Veneta, opera fondamentale attesa da quasi trent'anni. L'Italia dei Sì è la strada giusta. Flat Tax e taglio delle tasse, riforma della giustizia, Decreto Sicurezza Bis, autonomia regionale, rilancio degli investimenti, revisione dei vincoli europei e superamento dell'austerità e della precarietà, apertura di tutti i cantieri fermi: noi siamo pronti, vogliamo andare avanti e non abbiamo tempo da perdere, la Lega c'è». Un cazzoto, quel «non abbiamo tempo da perdere» che vola in faccia al premier, con tutti i giornalisti ad assistere al knock-out per di più. A Conte non resta che chiudere l’incontro con un patetico «allora ci possiamo vedere» indirizzato al leader leghista. Da notare che nel lungo elenco salviniano ci sono solo e rigorosamente i desiderata leghisti. Il contratto è diventato carta straccia urbi et orbi.
L’incontro di Conte con la stampa è finito da più di un’ora quando Di Maio viene intercettato dai radar. Fino a quel momento era stato silente e già questo la dice lunga sullo stato ormai comatoso del governo del cambiamento. Anche il capo politico del M5S risponde su Facebook (alla faccia della raccomandazione di poco prima di Conte ad uscire «dalla dimensione della campagna elettorale e entrare in una visione strategica e lungimirante, diversa dal collezionare like nella moderna agorà digitale»). Dice Di Maio, più per convincere se stesso che per intimorire l’alleato/nemico, che il Movimento 5 Stelle «è la prima forza politica di maggioranza e ha sempre sostenuto questo Governo. Lo abbiamo sempre fatto lealmente e crediamo che ci sia ancora tanto da fare e soprattutto un contratto da rispettare. Noi siamo leali, vogliamo metterci subito al lavoro e crediamo che i fatti siano la migliore risposta in questo momento». Il governo è morto. Potrà andare avanti per qualche settimana o per qualche mese ancora, ma oggi è sostanzialmente morto. E l’elenco delle cose fatte che Conte rivendica da palazzo Chigi, il suo sottolineare che «la fedeltà alla Repubblica è il mio faro», l’avvertimento che una procedura di infrazione di Bruxelles «ci farebbe molto male», il richiamo all’articolo 95 della Costituzione che fissa i poteri e le prerogative del presidente del Consiglio, anche se privo «di una forza di sostegno», non ha nemmeno la forza del testamento. Perché per quello occorre ben altro che un incontro con i cronisti. Per quello serve il parlamento. E lo sottolineano subito le opposizioni . «Il Primo Ministro Conte ha aperto questa sera una crisi extraparlamentare. Questo discorso va fatto alle Camere e presto» dice il segretario di +Europa, Benedetto della Vedova. A reclamare Conte in parlamento anche il dem Graziano Delrio, secondo il quale «il fallimento è certificato da coloro che lo hanno provocato. Adesso, se è rimasto almeno un minimo di rispetto delle Istituzioni democratiche, Conte prenda coraggio e venga a riferire in parlamento sull'inattività del governo che dura da mesi e sulle sue intenzioni».
Durissimo il portavoce di Forza Italia alla Camera, Gorgio Mulè: «Le comunicazioni importanti di Giuseppe Conte – dice - si trasformano nella naturale continuazione di questo governo: una tragica barzelletta. In una sorta di seduta di autocoscienza assolutoria, Conte si loda e si imbroda vanagloriandosi dei pessimi risultati di un esecutivo contronatura». La sua collega di partito Maria Bernini, presidente dei senatori azzurri sottolinea che «l'ultimatum del premier ai suoi vice alla fine è stato molto chiaro, ma è avvenuto in modo irrituale e costituzionalmente scorretto, perché c'erano tre sedi istituzionali, e non la diretta streaming, in cui avrebbe dovuto porre la questione della durata del governo: il consiglio dei ministri, il Parlamento o il Quirinale. Se Conte, come ha affermato stasera, non ha intenzione di vivacchiare ulteriormente, gli elementi per prendere una decisione ce li ha già tutti sul tavolo. Il tempo è scaduto: ogni ulteriore esitazione sarebbe una sorta di inutile accanimento terapeutico».
Matteo Renzi parla di «giorno triste. Quando un Premier parla alla Nazione deve dire qualcosa di importante. O più semplicemente dire qualcosa. Un leader ha il dovere di indicare una strada, di avere coraggio, di non essere un fantoccio. La conferenza stampa di Conte segna oggi una figuraccia per le Istituzioni e per Palazzo Chigi», scolpisce l’ex premier, manco a dirlo, pure lui via social. Mentre il segretario del Pd Nicola Zingaretti ritiene che »Conte ha ammesso la paralisi, il disastro e il fallimento del suo governo che noi denunciamo da settimane. Tutto questo ha un costo immenso per il Paese, un costo che pagano gli italiani. Il bilancio di questi 12 mesi di governo giallo verde è disastroso: più debiti, meno crescita, meno lavoro, meno investimenti. Il governo ha reso più poveri milioni di italiani. Dopo tante chiacchiere lavoratori, operai e pensionati sono stati lasciati soli».
Per la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, il governo è alle prese con «il gioco cerino per vedere a chi affibbiare la responsabilità di far cadere il Governo prima di dover affrontare la legge di Bilancio». Chissà se il premier aveva previsto l’esito del suo discorso. Chissà se aveva lontanamente immaginato che le sue parole avrebbero suonato per il governo come le campane a morto. Chissà. O forse, chissà, tanto sprovveduto l’avvocato premier non lo è e sta pensando che domani si potrebbe ritagliare un ruolo in un possibile governo di transizione. Anche per questo ha voluto precisare che lui non è mica iscritto al Movimento Cinque stelle. Sia mai.
di Giampiero Cazzato
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