COME L'ENDURANCE
La campagna elettorale è una corsa "di durata". Non è tanto la prestazione sul giro a influire, quanto il numero dei giri che si effettuano. Lo sprint, poi, va dosato. L'importante è tallonare il diretto avversario e aprire il gas solo per la volata decisiva. Il resto è impegno, costanza, nervi saldi e faccia di bronzo. Non è un caso, a meno di due settimane dal voto, che il ministro degli Interni, in occasione del suo tour in Liguria e Piemonte, abbia rispolverato i modi – e il vestiario – di un tempo. Affabile con la piazza mentre sfoggia la sua felpa d'ordinanza, un Salvini decisamente più teso di qualche mese fa, incupito dai continui scazzi in casa gialloverde e da qualche sondaggio in controtendenza con gli ultimi mesi di parabola ascendente, ha fiutato, come una fiera braccata e sul punto di spiccare il balzo, che l'ora di passare al definitivo contrattacco è finalmente arrivata. Un rilancio in bello stile, da giocatore consumato. Nemmeno il miglior Renzi – come sottolineato da Lopapa su La Repubblica di oggi – si era spinto a tanto: «Il 26 maggio non sono elezioni Europee, ma un referendum tra la vita e la morte, tra passato e futuro, tra Europa libera e stato islamico». Un accorato appello che a qualcuno ha ricordato il coup de théâtre con cui l'ex premier e segretario del Pd si era definitivamente incartato sul referendum costituzionale del 2016. Una personalizzazione del voto costata carissima al Matteo I, un «noi» contro «gli altri» che di solito funziona finché i «noi» si accorgono di appartenere alla stessa barricata degli «altri». Nel suo discorso, il leader del Carroccio, parla poco di Europa, non cita quasi mai il Parlamento e le istituzioni che ha giurato di rivoluzionare. È tutto un ammiccare agli alleati ribelli che gli fanno la guerra da dentro, tutto un difendere il Sicurezza bis e le politiche sulle migrazioni da lui impartite. Siamo alla resa dei conti e, a giudicare dai toni, oltre al palcoscenico europeo, la partita che si gioca sarà anche quella per l'Italia.
LA RISPOSTA DELLE PIAZZE
A determinare l'alto grado di nervosismo che traspare dalla metà superiore del viso di Salvini – che tradisce il sorriso ostentato di quella inferiore – è il fermento delle piazze. Al ministro tutto «bacioni» e cuor di Nutella a cui ci eravamo abituati negli ultimi tempi, si sta sostituendo l'uomo, decisamente più suscettibile e poco allenato ad avere a che fare con la spina nel fianco dei contestatori. Se infatti il numero di bandiere leghiste nelle piazze d'ogni dove resta una costante che accompagna il tour propagandistico del ministro, è allo stesso tempo aumentato il numero dei detrattori. Ieri, dal palco di Settimo Torinese, forse per la prima volta, Salvini non ci ha più visto e quel «ma le pare normale, e che caz...» rivolto al responsabile dell'ordine in piazza, può rappresentare un piccolo segnale di cedimento. Quelli che lui chiama agitatori dei centri sociali cominciano a spuntare come i funghi nel sottobosco dei comizi leghisti e il loro vociare di cori e slogan fa perdere il ritmo alla narrazione del titolare del Viminale. Chissà che anche la vista degli striscioni di contestazione non turbi la concentrazione quando si ha a che fare con le turbolenze della piazza: dopo il caso di Salerno, in cui agenti di polizia avevano costretto una signora a rimuovere dal proprio terrazzo un lungo lenzuolo che recitava “Questa Lega è una vergogna”, oggi è stata la volta di Brembate, dove, «per ordine della questura», agenti dei vigili del fuoco hanno rimosso da un'abitazione un altro striscione che contestava Salvini. C'è poi il divertente – o frustrante, secondo personale coscienza – siparietto dei richiedenti "selfie". Il ministro social per eccellenza non può sottrarsi alla marea festante che, armata di smartphone, richiede all'idolo uno scatto che immortali nell'eternità il momento in cui lo si possa toccare, l'idolo. E allora, al termine dei comizi, c'è sempre un serpentone che si snoda verso il palco occupato dal leghista. Peccato che più d'uno – e anche questi agitatori crescono di piazza in piazza – approfitti dell'attimo di celebrità per mettere in imbarazzo il titolare del Viminale con provocazioni sui 49 milioni fatti sparire dal suo partito, con accuse per la gestione dei flussi migratori e sospetta vicinanza ad esponenti del cosiddetto neofascismo italiano, senza farsi mancare, come nel caso di Caltanissetta, lo scatto-trappola, in cui un confuso ministro degli interni viene immortalato mentre guarda con stupore due ragazze unite in un bacio saffico.
QUESTIONE DI CONSENSO…
Messe da parte le questioni di cuore, Lega e 5 Stelle si sono dati appuntamento al termine della battaglia. Come due viandanti giunti a braccetto (o quasi) al limitare della foresta, i due vicepremier hanno imboccato due sentieri diversi con la promessa di ricominciare da dove avevano interrotto una volta che la tormenta elettorale sarà passata. Dirlo è un conto, farlo è tutt'altra faccenda. Lo sport di darsi addosso a vicenda e poi chiudersi in serrati cdm per far quadrare i conti, sta diventando una fatica immane anche per l'arbitro della partita, quel Giuseppe Conte continuamente tirato per le maniche e, anche lui, colpevole di evidenziare qualche primo segno di cedimento. Se il caso Siri ha fatto gridare allo scandalo i leghisti, secondo cui l'operato del premier si identificherebbe con un suo inevitabile schieramento coi grillini, anche dietro al continuo rinvio del Consiglio dei ministri per definire alcuni temi del Contratto cari alla Lega (autonomie, sicurezza bis, flat tax su tutti), che potrebbe slittare a dopo le Europee, c'è chi ravvisa diaboliche macchinazioni per mettere i bastoni tra le ruote alla propaganda del Carroccio. Come sempre è tutta una questione di consenso e di equilibri: ai temi cari a Salvini, infatti, i 5 Stelle rispondono con il conflitto di interessi e più di un appunto sui rimpatri e le politiche del Viminale giudicate inefficienti. Una dialettica talmente accesa da far rimangiare la parola anche a Di Maio, che definì «mancetta elettorale» il bonus-spot degli 80 euro di Renzi del 2014 e che ora rilancia con la promessa di uno stanziamento da un miliardo – fondi inizialmente previsti per il reddito di cittadinanza – da distribuire subito «per decreto» alle famiglie italiane.
…E BALLOTTAGGI
A gonfiare il petto del delfino di Beppe Grillo ci sono anche le notizie delle comunali in Sicilia. La stessa Sicilia che a Cinisi, in occasione della commemorazione per Peppino Impastato, aveva scacciato esponenti grillini perché «al governo coi fascisti». Nei comuni finiti al ballottaggio, i pentastellati hanno strappato alla coalizione di centrodestra Caltanissetta, dove il candidato Roberto Gambino ha trionfato anche grazie ai voti dei leghisti. Anche Castelvetrano, patria del super boss latitante Matteo Messina Denaro, è diventata feudo dei grillini. Fa notizia il caso di Gela, dove un asse moderato Pd-Fi ha retto l'urto sovranista e portato alla vittoria il candidato Lucio Greco, ai danni del leghista Francesco Spata, su cui erano confluite anche le preferenze degli elettori 5Stelle. Chissà che non sia l'insospettabile colpo di scena del post 26 maggio.
di Alessandro Leproux
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