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Cronache di una disfatta annunciata: Di Maio, Di Battista, gli insulti e la paura di governare



«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure...»


Ancor prima dei diritti civili di cui ogni cittadino di questa nazione gode, la Carta Costituzionale ci ricorda i doveri insindacabili a cui sottostare perché l'ordinamento trovi al suo interno chiarezza e esaustività che, di fatto, legittimino le regole del gioco. Per rendere effettivi e quindi esercitabili i diritti, l'autorità, ancor prima dei singoli individui, è chiamata al rispetto assoluto delle prerogative costituzionali che ne limitano il potere all'interno dell'ordinamento democratico e che sono baluardi imprescindibili per scongiurare pericolose derive autoritarie. L'articolo 21, chiamato in causa dai recenti fatti di cronaca politica, sancisce un punto focale del rapporto di forza tra chi esercita il potere e chi ha il sacrosanto diritto/dovere di bilanciarne la portata per mezzo della critica, aspra o meno che sia.


L'assoluzione del sindaco di Roma Virginia Raggi dai fatti di due anni fa, oltre a confermare la precaria situazione di un partito giovane (nei suoi esponenti tanto quanto nelle sue radici) chiamato a responsabilità probabilmente maggiori di quanto possa sopportarne, non ancora in grado di tenere saldamente una linea e quindi più preoccupato ad attaccare che a difendere i suoi confini e quindi i suoi appartenenti (mostrando lacune "di personalità"), ha sancito ancora una volta un difetto che dalle nostre parti si manifesta non così sporadicamente da non essere considerabile come una concreta minaccia. L'attacco di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, apostoli del Verbo grillino, contro la stampa a loro dire faziosa, sciacalla, meretrice (o per dirla alla francese un po' mignotta), conferma una tendenza spiacevole e che non deve assolutamente essere sottovalutata o relegata alla stregua dello scontro di cui i pentastellati nutrono la loro stessa natura. Definire sciacalli o appunto prostitute intellettuali i professionisti del mestiere, di qualunque appartenenza politica più o meno esplicita, è comunque un errore grossolano per chi non parla più alla folla dei "vaffa-dipendenti" (o comunque non soltanto), ma alla nazione intera di cui tiene le redini. Rispondere all'insulto con l'insulto, ce lo insegnano dall'asilo, è il miglior modo per la proliferazione dell'ignoranza che si concretizza in gesti, che toglie tempo, energie e risorse preziose per discussioni serie e reali sulle necessità del Paese. Ridurre e semplificare una intera classe di professionisti a "seri e non seri" o "comprati e liberi" e via discorrendo, oltre a risultare una pratica assolutamente antipatica e che non nasconde una certa buona dose di tracotanza da chi se ne assume l'onere, espone tale ragionamento alla sua totale precarietà, basata su un giudizio morale più che analitico. Buon giornalista è chi racconta la realtà filtrata dalle lenti dei propri occhi e del proprio intelletto. Chi contribuisce, per quanto può, alla ricerca di una verità, dove possibile, o che sia sponda per ragionamenti altrui. Ed è qui che si smonta un altro punto della fastidiosa retorica a cui abbiamo assistito da parte di alcuni membri del Movimento 5 Stelle: la certezza, data per assioma matematico e non controvertibile, che la stampa sia il motore primo e scaturente del consenso politico e della percezione che i cittadini hanno dei loro rappresentanti. Stando a questa visione, a nulla contano i fatti, i provvedimenti, il lavoro vero e tangibile messo in atto da chi è chiamato a guidare un Paese. Sembra quasi che l'unico specchio di paragone sia la stampa, chi e come parla del lavoro di chi esercita il potere. Come se il popolo, nella sua accezione di astante di fronte al teatro di chi governa, sia paragonabile a poco più che una marionetta ammaestrabile, una bandieruola da indirizzare a folate di vento. Un'entità priva di intelligenza propria e che deve continuamente essere foraggiata con verità (o non verità) che ne indirizzino i pensieri. Dare degli scemi a chi ti ha dato il voto (circa uno su tre dei votanti, dati alla mano) è controproducente oltre che oltraggioso e diventa grottesco quando lo si fa inconsapevolmente. Le persone scelgono sulla base della qualità delle scelte fatte da chi governa, così come scelgono di dare retta a quello o quell'altro giornalista. Nascondere il fatto che tra essere l'opposizione per eccellenza ed essere i responsabili della nazione c'è un abisso in termini di esposizione in ciò che si dice e si fa , dimenticando per altro il fatto che i metodi che oggi vengono demonizzati sono gli stessi utilizzati quando si era dall'altro lato della barricata, è sintomo, come detto prima, di poca maturità e di manifesta ansia. Ansia di un giudizio che se scevro da questi condizionamenti, difficilmente sarebbe positivo. L'attacco diretto al demone della stampa corrotta, più che una battaglia di libertà, così come viene intesa in certi ambienti non solo grillini, appare come un contentino da dare alla piazza famelica, un mea culpa a quella base ancora scottata dall'alleanza, prima impensabile, con la Lega martoriata in campagna elettorale. E tutto questo rientra nello schema precedentemente delineato, quello cioè che si attua soltanto quando si dà per scontato che la platea a cui ci si rivolge sia composta da scemi. Ma gli scemi, come dimostra la storia, hanno una pazienza e tale pazienza ha dei limiti che se superati prospettano orizzonti ben poco fausti. Non potendo conoscere il futuro, gli uomini si affidano al detto che chi vivrà vedrà, e il rischio grillino in questo momento è che il ripetersi di questa condotta antagonista contro tutto e tutti sia la base per una autentica disfatta, l'ultima cosa che la creatura montata da Casaleggio e Grillo vedrebbe al cessare della sua vita.

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