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Daisy Osakue: l'ultima vittima della violenza senza bandiere e del tutti contro tutti



L'ennesimo caso di violenza sulle strade italiane, forse dettato da movente razziale, ha fermato il Paese e costretto a obbligate riflessioni. Questa volta nella spirale di insensata violenza e disprezzo della diversità è caduta la campionessa di atletica Daisy Osakue. La lanciatrice del disco, capace di realizzare il record italiano under 23 e il quarto miglior risultato di sempre di una discobola azzurra, stava rientrando nella sua casa a Moncalieri, comune vicino a Torino, quando un furgone l'ha puntata e, una volta affiancata, dall'interno è partito un uovo che l'ha colpita all'occhio. La ragazza è stata operata a causa del danneggiamento della cornea provocato da un residuo del guscio, che ha oltretutto messo a rischio la sua partecipazione agli Europei di Berlino la cui convocazione è prevista per questo sabato.


L'aggressione ai danni della ventiduenne di origini nigeriane, nata e cresciuta in Piemonte dove si è affacciata alle discipline sportive, è il caso più emblematico di una pericolosa deriva razzista che, almeno stando alle cronache, sta investendo l'Italia dal nord al sud.

Casi tutti da condannare con fermezza e intransigenza, dal ferimento superficiale del migrante frutto di una colluttazione sino agli esempi più crudi e barbari di omicidio. Non può essere il colore della pelle, così come l'appartenenza a quella o quell'altra etnia un deterrente e già il fatto che se ne parli con questa frequenza è dimostrazione di quanta strada occorra fare ancora in un Paese che non riesce a integrare le diversità, chiudendosi nelle proprie vetuste convinzioni, a volta sapientemente architettate e strumentalizzate da chi dovrebbe essere modello di comportamento.


Ma se è necessario fermare questa escalation di odio e paura che riporta il Paese in un passato che nemmeno gli appartiene, essendo da sempre l'Italia considerata un porto franco per quanti fossero in cerca di una seconda chance, vanno altresì chiariti alcuni aspetti oscuri della vicenda. In primis la particolare risonanza dei recenti avvenimenti che potrebbe far propendere i più maliziosi per un tentativo di affossare quanto sta portando avanti l'esecutivo nello spinoso tema dell'immigrazione e dell'accoglienza. Dipingere improvvisamente le province italiane come covi di razzismo e sentimenti reazionari, soprattutto per opera di chi questo fallimento ha contribuito a crearlo e ora punta il dito dalla ben più comoda prospettiva dell'opposizione, appare una artificiosa ricostruzione volta a svilire politicamente l'avversario ora in voga. Se poi il suo nome è Matteo Salvini, uno che ha fatto della schiettezza e del parlare semplice e diretto un'arma, a doppio taglio visti i recenti eventi, l'operazione di distruzione risulta ancora più semplice. Basta trovare un nemico, un "cattivo" responsabile di fomentare l'odio nelle persone e il gioco è fatto. Una semplificazione che diventa mistificazione e finisce col gettare in un unico calderone, quello della superficialità, situazioni ben distanti tra loro e scaturite dai più disparati motivi.


Secondo punto che potrebbe saltare all'attenzione di chi legge ogni giorno le cronache dall'inferno di un'estate nera come non mai è quello del gioco delle parti. Risulta bizzarro, se non ai limiti del paradossale, attribuire soltanto a determinati soggetti la causa delle violenze di cui si macchiano determinati squilibrati, lasciando al versante opposto la ben più limpida posizione di giudice indiscusso. Eppure basta aprire un social di nostro piacimento, in qualsiasi ora della giornata, per trovare ben posizionati in alto, stracolmi di likes e commenti, pensieri, comizi virtuali, editoriali non accreditati e quanto di più si voglia, a firma di quelle sinistre che si sentono ora legittimate ad esprimersi avendo trovato un nemico ultimo a cui addossare le colpe di un decadimento culturale che ha radici ben radicate nel tempo. Se poi aprendo uno di questi post a caso, frutto del genio intellettuale di questi soggetti al di sopra delle parti, si scopre con amara tristezza che il linguaggio perpetuato, gli aggettivi, gli appellativi e le offese sono tali e quali che nelle sponde opposte, allora sorge, nella mente pensante, il dilemma. Potrebbe darsi, ogni condizionale è imperativo, che abbiano contribuito a questo clima di ferocia anche quelli che si auto investono del diritto di portare vesti candide e pure e che si crogiolano nelle loro pacifiste convinzioni fatte poi di odio represso sputato al veleno contro i bersagli di turno? Potrebbe darsi che l'insulto volgare contro Salvini, o l'appellativo di mafioso che qualche scrittore sotto scorta gli ha riservato, finiti nel calderone dei social, possano sfociare nella stessa reazione violenta e ingiustificabile di chi li mal recepisce? Potrebbe ancora essere plausibile parlare di un antico detto per cui "odio porta odio?".


Tutti quesiti legittimi e che per qualcuno lasceranno il tempo che trovano. Intanto il dato certo è che la violenza giustifica se stessa e che, protratta da un lato o dall'altro, sempre violenza rimane. E che anche quella verbale, primogenita dell'ignoranza, possa riservare tristi e spiacevoli epiloghi. Restando nelle ben più facili posizioni di facciata che le diversità politiche evidenziano, si rischia di perpetuare questa farsa, questa finzione che si addice a un set cinematografico e non alla realtà. Una recita, quella del gioco di ruolo, che crea buoni e cattivi, amici e nemici, scordandosi che poi, a somme tirate, sono tutti esseri umani e che, in fin dei conti, un uovo tirato contro un occhio finisce per avere la stessa valenza di una minaccia più o meno velata affidata ai social network e che in questa triste storia, fatta di attori e comparse, l'unico vero ruolo da protagonista se lo è conquistato proprio la violenza.

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