È già finito tutto, prima ancora di iniziare. Prima che gli iscritti possano decidere alcunché. Prima che parta una discussione vera. «Conte lo vuole sapere» ha detto Di Maio ai parlamentari convocati ieri a Montecitorio per decidere il da farsi dopo la batosta elettorale del Movimento. Vuole sapere, Conte, se il Movimento intende continuare a sostenere l’esecutivo o meno. E in verità lo vuole sapere pure Salvini, il quale ha fatto capire chiaramente che se mai dovesse salire sulla tolda di comando del movimento una persona a lui non gradita , beh, le cose a palazzo Chigi e dintorni potrebbero prendere una brutta piega. Dunque il voto su Di Maio, deve dimettersi o meno?, diventa in realtà un referendum sul governo. Che per i presenti in quella sala, a tarda ora, vuol dire: restare nei ministeri, nei palazzi del potere, nelle partecipate, viaggiare in auto blu, oppure condannarsi alla marginalità e, soprattutto, prepararsi ad elezioni in cui la metà buona dei presenti rischia di restare con il culo a terra? La risposta loro l’hanno già data, oggi tocca alla Rete ma quella, guardiamoci bene nelle palle degli occhi, è formalità o, meglio, ammuina.
«Non sono mai scappato dai miei doveri e se c'è qualcosa da cambiare nel Movimento lo faremo». Prima di ogni altra decisione però la parola al popolo: «Chiedo di mettere al voto degli iscritti su Rousseau il mio ruolo di capo politico, perché è giusto che siate voi ad esprimervi. Gli unici a cui devo rendere conto del mio operato» aveva scritto ieri Di Maio sul Blog delle Stelle. La domanda a cui rispondere è: confermi Luigi Di Maio come capo politico del Movimento 5 Stelle? Le votazioni saranno aperte fino alle 20 di oggi. Giggino che per cacciare dal partito gli altri ci mette 30 secondi, stavolta depone i panni del signor «decido io». E decide, altroché se decide. Di salvare le chiappe.
Ma con l’illusione ottica che a stilare la sentenza di assoluzione, a incoronarlo nuovamente capo politico, sia il popolo grillino. Decidono gli iscritti. Nell’agorà farlocca appronta dalla Casaleggio Associati. La democrazia è infida. La democrazia diretta invece è manopolabile – pollice su, pollice giù - e gli consente di blindarsi da ogni critica politica. Una volta che il “popolo” fosse per riconfermarlo chi tra i suoi oppositori oserà più insistere? Del popolo della Rete ci si può fidare tanto quanto quello che a Gerusalemme decise di mandare sulla croce Gesù e salvare Barabba. Ma tant’è. «La scelta di andare su Rousseau è la tomba di ogni tentativo di revisione», coglie nel segno la senatrice Paola Nugnes, annunciando la propria assenza alla riunione dei parlamentari pentastellati. A mettere una pietra tombale, almeno per ora, su un dibattito politico vero ci ha pensato Beppe Grillo, pure niente affatto tenero con Di Maio in queste ultime settimane. «Luigi deve andare avanti. Niente espiazioni. Vogliono anestetizzarci. Questo è un colpo di coda della parte marcia del Paese». Tradotto: se si apre il processo a Di Maio si apre il processo al M5S. E, di processo in processo, questo probabilmente il ragionamento di Grillo, il movimento finirebbe per avvicinarsi pericolosamente ad un Pd che se fino a qualche settimana fa si poteva pure immaginare come maggiordomo di una eventuale nuova maggioranza oggi, forte dei consensi raccolti alle europee, pretenderebbe ben altro ruolo.
Sarà un plebiscito per Giggino che, d’altronde ieri lo ha detto chiaramente: sì a una riorganizzazione del Movimento 5 Stelle ma si deve partire dalla fiducia nel capo politico o da un nuovo capo politico. Appunto, vallo a trovare un capo politico da mettere al posto del vice premier! Intendiamoci, non è questione di capacità, di competenze, di carisma, di prestigio. Più semplicemente lui è l’unico punto di equilibrio possibile per tenere in piedi il governo (per quello che durerà). Ovviamente, manco a dirlo, Di Maio vuol far credere che della poltrona non gliene frega nulla, «molti pensano sia bello stare in prima linea, ma il punto è che quando va tutto bene e vinciamo il merito è di tutti, giustamente, il problema è che se si perde prendo schiaffi solo io» ha detto ieri nel corso dell'assemblea. Insomma, porello, lo hanno lasciato solo a combattere come un eroico marines, mentre gli altri… Già gli altri. L’amico e il fratello (guardati dai fratelli, lo insegna Abele) Di Battista, che già pensava di raccogliere la corona e che invece, se gli va bene, finirà per entrare nel direttorio cui Di Maio darà vita. Depotenziato, che quasi quasi gli converrebbe tornare a casa, fare i bagagli e andarsene davvero in India. Chi, in queste ore, tra tutti Gianluigi Paragone, ha rudemente fatto notare al ministro e vicepremier che 4 incarichi sono troppi e che pure sei milioni di voti persi sono troppissimi e che, dunque, grazie per la «generosità», ma molla almeno il partito, anche perché – e qui la rasoiata è notevole - «se vuoi fare Superman, devi dimostrare di esserlo», dovrà o arretrare in buon ordine, aspettando tempi migliori, o rompere.
Ieri è stata una gara a far quadrato attorno al capo dei Cinque Stelle. Tutti insieme appassionatamente, ministri, sottosegretari, sottopancia, yes man e peones. Gente che fino ad oggi non avete mai sentito e che fra qualche giorno sparirà nuovamente dai radar ha conquistato il suo attimo di notorietà nel secondo mestiere più antico del mondo: quello dell’adulatore, o se volete, cortigiano, lustrascarpe, leccaculo.
Aspettiamo con ansia che arrivino le 10 di sera. Non perché potrebbe uscire da quel voto online chissà quale risultato imprevedibile, ma solo per confermarci che il cosiddetto governo della gente comune è una fake news. Che la Rete lo promuova vale quello che vale, cioè poco. Il referendum su Di Maio c’è già stato: il 26 maggio.
di Giampiero Cazzato
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