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Difesa e Croce Rossa condannati a risarcire la morte del maresciallo ucciso dall’uranio impoverito



Clamorosa sentenza del Tar del Lazio che ha condannato il ministero della Difesa e la Croce Rossa a risarcire i familiari di un maresciallo ucciso dall'uranio impoverito. In pratica, i giudici della terza sezione del Tribunale amministrativo regionale sostengono che l’Amministrazione conosceva i rischi di salute che correva il militare - mandato nel 1996 e nel ‘99 al fronte nella ex Jugoslavia e in Kossovo – ma non avrebbe fornito le adeguate protezioni, come invece all’epoca hanno fatto gli alleati della Nato. Il 12 febbraio il Tar ha condannato dicastero di via XX Settembre e Croce Rossa a risarcire i familiari della vittima difesi dall’avvocato Paolo Ciabatti. Sono la vedova e due figli, adolescenti nel 2000 quando il sottufficiale quarantacinquenne è morto di leucemia in un ospedale della Capitale. Ciascuno intascherà oltre 160 mila euro di risarcimento.


In quegli anni di guerra al di là dell’Adriatico, l’allora sottufficiale era un dipendente della Cri e quindi ausiliario delle Forze Armate. Si trovava al fronte, a contatto con gli effetti mortali dell’uranio impoverito. «Anzitutto – è scritto nella sentenza - va precisato che dalla relazione della Croce Rossa emerge che il maresciallo capo, oltre che in Bosnia durante un trasporto attraverso la Croazia, è stato impiegato in Albania - e non in Kossovo - ma che per assistere al meglio la massa dei civili in esodo, il personale militare CRI operava in zone interessate da conflitti e in taluni casi detti punti limitrofi sono stati oggetto di bombardamenti e raid aerei. Inoltre – si aggiunge - i portaferiti e il personale sanitario, tra cui il maresciallo, si adoperavano in punti già teatro di azioni belliche».


Durate la causa, il Tar ha chiesto al dicastero di replicare alle accuse presentando una dettagliata relazione per verificare l’eventuale «condotta gravemente colposa del Ministero della Difesa, per aver sottoposto il militare all'esposizione di sostanze tossiche e/o cancerogene e per non aver adottato le necessarie misure preventive, atte a scongiurare la possibilità di contrarre la grave patologia che lo ha poi condotto a morte». Ma, riferiscono i giudici, il «28.02.2018 la Difesa, in realtà, depositava non la richiesta relazione, bensì riferiva un parere espresso su un caso analogo e non riguardante la fattispecie per cui è causa, né prendeva in esame le risultanze della Commissione parlamentare d'inchiesta della XVII legislatura pubblicata il 07.02.2018». Quindi, concludono i giudici, «emerge in tal modo la consapevolezza della pericolosità delle condizioni di lavoro dei militari italiani nelle varie zone di guerra, ribadendosi come la probabile connessione tra l'esposizione a uranio impoverito e l'insorgenza di gravi patologie, anche di natura oncologica, ha indotto l'Onu a vietare l'utilizzo di armi contenenti tale elemento (risoluzione n.1996/16) e diversi Paesi hanno assunto misure di protezione e precauzione a favore dei militari impiegati nelle operazioni Nato».


«Dopo anni si fa luce rispetto a un fatto cosi grave – commenta l’avvocato Ciabatti – In precedenza c’è stato solo qualche caso isolato in cui il Tribunale ha stabilito dei risarcimenti accertando l’attività pericolosa svolta e le responsabilità del datore di lavoro, il ministero della Difesa. Qui è diverso – sottolinea - il ministero sapeva e non ha ottemperato ai suoi doveri». La parola fine non è ancora scritta. Difesa o Croce rossa potrebbero appellarsi, e l’avvocato dovrà rivolgersi al Tribunale del Lavoro per fare i calcoli esatti del risarcimento e farsi staccare l’assegno.


di Fabio Di Chio

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