«Questo non è un mercimonio!» grida lui, «con i no non si va da nessuna parte» risponde l'altro. Sia quel che sia, in casa “Gialloverde” siamo ai cocci che volano. Come in un qualsiasi rapporto di coppia che si rispetti, dopo un primo periodo di felicità apparente e onnicomprensiva, in cui gli scricchiolii vengono volutamente tralasciati, le differenze di natura e di veduta delle due ali governative si sono riproposte in blocco. Quel sottile equilibrio, chiamato compromesso, che ha tenuto in piedi il governo in questi mesi di do ut des sembra essersi smarrito. O forse si è arrivati al fatidico nodo al pettine che non può essere sciolto senza che una delle due parti si pieghi in maniera decisiva. In questi giorni di vertici ad oltranza a Palazzo Chigi, ring dove si è cercato di arrivare a una sintesi sulla Tav che scontentasse tutti senza far saltare il tavolo, quelle incrinature nel rapporto tra le due teste pensanti, sino a ora oggetto di speculazione giornalistica e costantemente rimandate al mittente dai vicepremier, si sono fatte tutte insieme delle crepe che minacciano una incombente frana.
La Tav s'ha da fare, costi quel che costi. La Tav non sta in piedi, a prescindere da questioni ideologiche. Due prese di posizione opposte e questa volta parrebbe davvero inconciliabili. Nemmeno l'intervento del pacificatore Giuseppe Conte, ertosi quale arbitro imparziale nella disputa, deciso a dirimerla con il «buon senso» di cui si è forse sin troppo abusato in questi mesi, è riuscito a smuovere le acque. Anzi, nel corso della conferenza stampa di ieri, ha lasciato intravedere spiragli d'apertura verso le posizioni grilline, al netto, dice lui, di una valutazione «tecnica» basata sull'analisi/costi benefici che Salvini, in coda con tutto il resto del Paese, ritiene di parte o quanto meno controvertibile.
Dai silenzi si è quindi passati alle scaramucce, con la Lega che ha recapitato a Palazzo Chigi una contro-analisi figlia di tecnici pro Sì. Un pandemonio tecnico-giuridico-istituzionale che ha di fatto messo in stallo e in discussione ogni attività governativa e che rischia di naufragare in autentiche minacce.
Forte di un consenso in continua ascesa, a precisa domanda di chi gli faceva notare che, numeri alla mano, oggi un governo di cdx toccherebbe il 50%, il leader del Carroccio Salvini è sembrato imperturbabile, forse un po' troppo per risultare credibile, continuando a insistere che uno con la «testa dura» come lui mantiene la parola data, in nome del Contratto e della responsabilità verso il Paese, «purché i no non inizino a diventare troppi». Versione edulcorata della dichiarazione rilasciata appena un giorno dopo, in cui si dice «pronto ad andare fino in fondo» per accertare chi tra lui e Di Maio abbia la «testa più dura». Il rischio concreto che lunedì si annunci un divorzio anzitempo resta alto e la Lega sembra pronta ad andare in deroga al capitolo Tav insito nel programma condiviso con i 5 Stelle che prevedeva una ridiscussione totale dell'opera e conseguente congelamento dei bandi Telt almeno fino al dopo Europee. Oggi gli scenari sembrano mutati e Salvini teme ripercussioni proprio in vista del voto se dovesse cedere su un argomento tanto caro all'elettorato del Nord. Dall'altra parte c'è invece la base nazionale, insorta sul web anche contro il Capitano, per la prima volta in maniera così esplicita, per cui la Tav non vale la candela se in gioco c'è la sopravvivenza dell'esecutivo. Salvini, a margine di una conferenza sulla Giustizia, ha rimandato tutto «a lunedì», ma quello che si apre domani sarà un fine settimana infuocato e di poco riposo.
Non se la passa meglio l'altro capo politico Di Maio, per cui il no alla Tav rappresenta l'ultimo baluardo dell'anima movimentista dei 5 Stelle. Si è detto «interdetto» dall'atteggiamento di totale chiusura mostrato dalla Lega, ha definito «irresponsabile» Salvini che minaccia la stabilità dell'esecutivo su un capitolo, quello della Tav, la cui posizione dei 5 Stelle era ben nota da prima del voto del 4 marzo, per concludere con una sorta di appello a nuora perché suocera intenda, quando, rivolto direttamente agli elettori della Lega, si è domandato cosa avrebbero pensato se «avessi messo in discussione la legittima difesa che non ho fatto e non farò, o il decreto sicurezza e altri provvedimenti che allora quando abbiamo scritto questo bellissimo atto di governo sono entrati in quota Lega?». La domanda, oltre a confermare eccome il mercimonio, nella misura in cui Di Maio certifica che il Movimento abbia votato provvedimenti in nome del vivere collettivo dell'esecutivo, suona come un avviso a Salvini, a cui servirebbero in ogni caso i voti dei 5 Stelle in Senato per sventare l'ipotesi del processo Diciotti. Per Di Maio, forte dell'appoggio del premier Conte sulla vicenda, «non può decidere Salvini», ma afferma di non voler esercitare alcuna prova di forza – nonostante i numeri, almeno dentro a questo governo, siano dalla sua – e chiede la stessa «lealtà» al contratto che lui dice di rispettare. La sua paura più grande, che equivarrebbe alla fine del matrimonio, è che la partita si risolva in Parlamento, dove i 5 Stelle sarebbero soli contro tutti. In chiusura, il capo politico grillino risponde piccato alla battuta di Salvini, che rimandava tutto a lunedì, dicendo che «è chiaro che stiamo parlando di qualcosa di più grande (della Tav, ndr) che è il destino del governo, inevitabilmente sarà un weekend di lavoro. Non si può dire ci vediamo lunedì».
Ciliegina sulla torta, un'altra bordata al Movimento, che colpisce dritta al cuore del migliore amico, il confidente che per sostenere le parti di uno dei due, finisce per rimetterci. Soltanto virtualmente fuori dai giochi, perché non eletto, Alessandro Di Battista si è subito trovato a suo agio nei panni di profeta free lance, di inviato speciale del Movimento, ma un'intervista rilasciata a “Che tempo che fa” da Fazio potrebbe costargli cara. Sotto accusa una frase secondo cui dietro ai Comitati Sì Tav si nasconderebbe la 'ndrangheta oltre a un non ben definito giro losco di corruzione. Frasi non piaciute alle sigle delle imprese che spingono per l'opera – molte delle quali hanno annunciato proteste ad oltranza in caso di vittoria del no – e che sono valse a "Dibba" una querela, depositata da Unione Industriale di Torino insieme ad Amma, Ance Piemonte, Confagricoltura Piemonte e Confindustria Piemonte. «In quanto promotori di un Comitato Sì Tav e di numerose iniziative a sostegno dell’infrastruttura - si legge nella nota firmata dalle imprese piemontesi - le associazioni querelanti si considerano destinatarie dell’offesa e ritengono tali dichiarazioni gravemente lesive della loro reputazione. Le associazioni imprenditoriali hanno ritenuto offensive tali dichiarazioni e si sono perciò rivolte alla magistratura chiedendo un intervento volto alla tutela della loro reputazione e al riconoscimento della valenza diffamatoria delle affermazioni di Di Battista».
di Alessandro Leproux
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