Chi è rimasto al fianco di Renzi, tra quelli che, fino a ieri, si autodefinivano, con sfrontato orgoglio, non ‘renziani’, ma proprio ‘renzianissimi’? Pochi, pochissimi, fedelissimi. Eppure, parliamo di circa 100 parlamentari, 700 delegati in Assemblea nazionale, 120 in Direzione, insomma quadrate legioni di soldati schierati a testuggine, o almeno così sembrava. Ecco, le legioni si sono sciolte, come la neve al sole e,, all’improvviso, si sono ammutinate contro l’Imperatore (e condottiero) che li guidava perché, in sostanza, sostengono che non voglia più difendere i confini dell’Impero (il Pd), ma ‘traversare il Rubicone’ e ‘marciare su Roma’, cioè fondare un nuovo partito, ‘tradendo’ il Pd.
Insomma, fuori di metafora, da Renzi e da una parabola che tutti, nel Pd, giudicano ormai declinante, una stella cadente, ormai, è in corso un vero e proprio fuggi-fuggi dentro il Pd. Tanto per tornare a farne una questione di numeri, ben in 85 (su 100) renziani hanno firmato per sostenere la candidatura di Martina, in tre stanno con il neonato ticket Giachetti-Ascani (i due del ticket più Nobili: la cosa fa persino un po’ ridere, al Nazareno l’hanno già ribattezzata come la candidatura “del Primo Municipio” di Roma perché ritengono che giusto nel centro della Capitale troveranno qualche voto…), in cinque ‘non si schierano’ per nessuno (Boschi, Bellanova, Padoan, Marattin, persino Anzaldi) e in due (Ceccanti e Romano) prima dicevano di voler sostenere una candidatura autonoma, poi, hanno ripiegato, a malincuore, e a loro volta, pure loro su Martina. Ecco fatti presto i conti di quello che - agli occhi di tutti gli tutti gli osservatori - appare segno di una sconfitta epocale, un vero disastro tattico e strategico, ma che al ‘Matto’ (così lo chiamano i suoi), non dispiace più tanto.
Renzi, infatti, ritiene tutti questi parlamentari e dirigenti dem né più né meno che delle zavorre, pesi morti da cui liberarsi presto. Specie se, appunto, vuole costruire un partito tutto nuovo. D’altra parte, però, la storia degli ‘abbandoni’ dei renziani (a volte delle vere e proprie ‘fughe’) dal campo del leader rappresentano una tradizione e indicano un filo rosso che contraddistingue l’intera storia della stagione del renzismo. Vediamone alcuni, di questi abbandoni, almeno i principali. All’inizio, nella notte dei tempi, cioè della prima edizione della Leopolda, i rottamatori erano in due: Matteo Renzi e Pippo Civati. Milanese, ciuffo ribelle, aria annoiata e viso di chi – stile Franti – sta per fare l’ennesima marachella, Civati ruppe presto con Renzi, poi si mise a fare il bastian contrario dentro il Pd, poi uscì dal Pd per fondare, più che un movimento, un one man show (si chiamava ‘Possibile’), poi entrò nella sfortunata e disastrosa compagnia di Leu, poi non entrò in Parlamento, poi si è perso nelle nebbie. Per lungo tempo, al fianco di Renzi, sorse a un certo punto la stella dell’“altro Matteo”, che non era Salvini, ma Richetti: modenese, bel fijeu, Richetti sembrava un Renzi minore, ma ormai ha rotto anche lui ogni rapporto con l’ex alter ego, prima fondando un carro suo, cioè una candidatura autonoma al congresso, poi salendo sul carro di Martina. E che dire del rapporto tra Renzi e Delrio? Sui rispettivi cellulari si erano segnati uno (Matteo) come “Mosé” e l’altro (Graziano) come “Ietro” che di Mosé nei testi biblici era il secondo in comando, nella traversata dall’Egitto.
Ma, durante gli anni di governo, ecco che scoppia pure quella coppia: il primo premier, il secondo prima sottosegretario alla presidenza del Consiglio, poi ministro nei suoi governi, la rottura diventa presto insanabile e da politica si fa umana. Non a caso, Delrio è stato uno dei primi a lanciare Martina. E che dire della rottura – anche qui: umana, oltre che politica – tra Renzi e Paolo Gentiloni? L’uno alter ego dell’altro, sembravano destinati a lavorare insieme per anni, ma oggi si detestano e, se si incontrano, manco si salutano. E, certo, con Marco Minniti non c’è mai stato feeling: troppe diverse le storie di provenienza, i miti e i riti, ma insomma, anche in questo caso, la componente umana ha causato un disastro politico: incomunicabilità e gelo hanno portato, come conseguenza, al ritiro di Minniti dalla corsa. Con Matteo Orfini, certo, le storie di provenienza erano diversi, ma erano diventati così amici da farsi fotografare mentre giocavano insieme alla playstation aspettando le elezioni (perse). Beh, anche Orfini ha preso il cappello e se n’è andato, con i suoi Giovani Turchi, pure lui su Martina. Però c’era ‘Lorenzo’ (Guerini), detto “il Forlani di Renzi”. Quando ‘Matteo’ aveva un problema chiamava ‘Lorenzo’ e questi, abile e discreto tessitore di accordi e compromessi, glielo risolveva. Ma anche lui ha subito, in silenzio, sgarbi e prevaricazioni. Oggi Guerini capeggia la trasmigrazione del grosso delle truppe ( ‘ex’) renziane su Martina, ma senza fare un plissé, cioè senza fare una polemica una, che non è nel suo stile, anche se ne avrebbe, volendo, di cose da dire.
E, con Guerini, ma qui siamo nel campo della Settimana enigmistica, rubrica “Strano, ma vero”, se ne va Luca Lotti. Uno che, per Renzi, era un fratello, più che un amico, uno con cui Renzi ha costruito non solo la sua carriera politica, volendolo con sé ovunque, dal partito al governo, uno che con Renzi ha mangiato e dormito, riso e pianto, amato e odiato (gli altri), è diventato talmente distante da lui da essere calato, tra i due, un gelo e un astio che, dopo essere covato per mesi, ora è esploso in modo eclatante. Già prima dell’estate Lotti aveva rotto con Renzi (solo che non se n’era accorto nessuno): voleva convergere su Zingaretti, addirittura, poi ha guidato – con Guerini – la trattativa con Minniti (credendoci), ha spostato i suoi su Martina proprio mentre gli arrivava sulla testa la tegola del rinvio a giudizio sul caso Consip e Renzi non spendeva una parola per lui. Una storia, quella tra Renzi e Lotti, che ricorda le grandi storie d’amore che, quando finiscono, la bocca si fa amara e in terra restano solo i risentimenti, oltre ai soliti piatti rotti. Poi ci sono ‘gli altri’, quelli che Renzi, di fatto, disistima, e che ai suoi occhi contano assai meno, praticamente zero: “Meglio che se ne vadano – sibila – con me non voglio pesi morti”. E così se ne va via Antonello Giacomelli, ‘lottiano’ oggi e franceschiniano ieri, uno dei più feroci nel dirottare il pattuglione degli 85 renziani su Martina e che, proprio ieri, ha usato parole assai dure, nei confronti dell’ex ‘capo’. Parole che uno come Dario Parrini – altro alfiere del renzismo in terra di Toscana insieme ad Andrea Marcucci, altro toscano, altro cavallo di razza del renzismo che fu, entrambi, a loro volta, Parrini e Marcucci, finiti su Martina – ha voluto severamente rampognare (“Uscita infelice e profondamente sbagliata da cui mi dissocio totalmente”) perché, insomma, ‘quando è troppo è troppo’ e il ‘calcio dell’asino’ non si dà, ecco, non si esce sbattendo la porta. Ma Renzi, degli ex Ppi-Margherita, non s’è mai fidato - anche se, in teoria, anche lui da quella storia viene – e dunque che se ne vadano gli ‘ex’ amici di Franceschini (il primo a tradirlo, come è antica consuetudine di ‘Giudario’, uno che Renzi ha sempre disprezzato) poco gli importa.
E che se ne vadano pure, dunque, il triestino Ettore Rosato, padre del Rosatellum, legge elettorale che doveva proteggerlo e che ne ha affossato le ultime ambizioni, il milanese Lele Fiano, le (ex) valchirie Malpezzi, Morani, Rotta, donne che avevano giurato essere le sue Amazzoni. Per non dire di Gennaro Migliore, che lasciò Sel per andare nel Pd e abbracciarlo come il nuovo Conducador della sinistra, delle ex sindacaliste cigielline Cantone e Fedeli, che Renzi ha portato in Parlamento a dispetto dei santi. Come se ne andranno, se non se ne sono già andati, i pochi governatori ‘renziani’ rimasti al Pd (Bonaccini in Emilia, Oliviero in Calabria, Pittella in Basilica, Chiamparino in Piemonte, ma soprattutto Vincenzo De Luca in Campania: e dire che Renzi, a De Luca, ha eletto in Parlamento il figlio).
Chi resta, dunque, con Renzi? Roberto Giachetti e Anna Ascani, valchiria vera, anche se fino a ieri fedelissima di Enrico Letta, uno che Renzi lo odia forse di più persino di Romano Prodi e almeno quanto lo detesta Walter Veltroni. Faranno pura ‘testimonianza’, al congresso, quelli del ticket, con altri, pochissimi, pasdaran (tipo ‘Lucianone’ Nobili), mentre tutti gli altri hanno ormai gettato la spugna. Restano, ovviamente, Sandro Gozi e Ivan Scalfarotto, anima e corpo dei ‘Comitati civici’, base del partito del Renzi che verrà (e neppure tardi, ma a inizio del 2019). E, ovvio, resta lei, ‘Meb’, Maria Elena Boschi: finge distanza, ma è sempre al fianco di Matteo. Perinde ac cadaver, come dicevano i gesuiti. Giusto per non citare “la ridotta di Salò”.
di Ettore Maria Colombo
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