La socialdemocrazia in Italia affossata dai socialisti.
A proposito della nascita del Pci, com’era ovvio, sono già emerse, e altre ne seguiranno, molte riflessioni e ricostruzioni di vario segno. Quella più genialmente celebrativa, pur nelle conclusioni fortemente critiche e pessimiste sul presente e sul futuro è stata quella di Biagio De Giovanni. Afferma De Giovanni: «Croce, Labriola e Gentile sono loro i fondatori del Pci. Il partito comunista come poi lo abbiamo conosciuto non nasce nel 1921 con Bordiga, ma con la svolta del 1926 guidata da Gramsci e Togliatti. Le sue vere radici sono nel dibattito che si svolse a cavallo del secolo fra i tre grandi filosofi italiani». Secondo la versione canonica la triade era composta da Labriola, De Santis e Croce. De Giovanni è più spericolato e chiama in causa Giovanni Gentile. Si tratta di un’affascinante ricostruzione per quanto riguarda la formazione di Gramsci (su Togliatti al di là delle sue civetterie culturali e dell’indubbio spessore politico del personaggio bisogna essere molto cauti) e anche i materiali culturali che ispirano la sua teoria sull’egemonia come strumento di conquista del potere nelle società occidentali. Per ciò che riguarda sia la dialettica all’interno del Psi fra riformisti e massimalisti prima del 1921, sia le conseguenze della scissione di Livorno nel 1921, sia il confronto autentico fra Bordiga e Gramsci, e quello immediatamente successivo fra Gramsci e Togliatti, sia i reali materiali costitutivi del Pci rifondato da Togliatti nel ’44-’48, sia sulle ragioni dei limiti e del carattere asfittico della socialdemocrazia italiana, a nostro avviso va seguito un percorso meno angelicato dalla “filosofia” di quello indicato da Biagio De Giovanni. Come ha sottolineato giustamente Giuliano Cazzola già i massimalisti avevano anticipato molti degli errori e dei disastri che poi la scissione del ’21 avrebbe portato alle estreme conseguenze. Con quello Stato uscito dal 1861 e con quella borghesia agraria e industriale, per larga parte reazionari e autoritari, già il riformismo gradualista di Turati e le mediazioni politiche e sociali di Giovanni Giolitti erano molto avanzate ed esse erano già state messe in questione dal fuoco incrociato dei conservatori e dei reazionari alla Salandra e dei massimalisti alla Ferri, alla Serrati e alla Mussolini che da parte sua ci mise un carico da undici prima di diventare interventista. Nell’immediato dopoguerra, nel fuoco del diciannovismo e dell’occupazione delle fabbriche, i massimalisti non riuscirono certo ad arrivare ad uno sbocco rivoluzionario, ma operarono solo una sorta di trasposizione romantica e messianica della Rivoluzione russa (“e noi faremo come la Russia”) fino alla fondazione del partito comunista avvenuta proprio quando il movimento stava in riflusso e lo squadrismo invece stava crescendo. E qui proprio usando gli elementi fondamentali del leninismo si misura il tragico errore commesso prima dai massimalisti, poi da Bordiga e dalla frazione che fondò il PC d’Italia da lui guidata, con Gramsci e Togliatti allora consenzienti sulle cose fondamentali (anche se i riferimenti culturali dell’Ordine Nuovo erano ben diversi da quelli del Soviet). Essi nel momento in cui proclamarono di voler fare “come la Russia” non si misuravano con il fatto che Lenin e Trotskij per realizzare “quella” Rivoluzione avevano costruito il partito degli operai, dei contadini e specialmente dei soldati, cioè un autentico “partito armato” in grado di operare la conquista violenta del potere. Invece in Italia stava avvenendo esattamente l’opposto: la stessa evocazione della “violenza proletaria” della conquista armi alla mano del potere da parte dell’avanguardia bolscevica accentuava lo smottamento di pezzi dello Stato, della borghesia, del ceto medio sulla linea della “reazione preventiva” di tipo fascista e squadrista. Così il tragico paradosso fu che mentre Serrati, Ferri e Bordiga predicavano in modo puramente verbale “la Rivoluzione bolscevica”, nella realtà il vero “partito armato” lo stavano realizzando Mussolini e Michele Bianchi nelle città e Italo Balbo nelle campagne con lo squadrismo agrario. E rispetto a tutto ciò la tesi fondamentale di Bordiga (ma, ripeto, allora nel ’21 Gramsci e Togliatti non si differenziavano molto da lui) era che fra Salandra, Giolitti, Don Sturzo e il traditore Turati non c’erano differenze di fondo. Infatti i dirigenti massimalisti e comunisti avevano capito così bene ciò che stava accadendo che mentre si stava preparando e realizzando la marcia su Roma erano quasi tutti a Mosca a contendersi l’investitura di Lenin che, sprezzante, disse loro riferendosi a Mussolini: «Vi siete fatti sfuggire l’unico capace di farla, la Rivoluzione». Ruggero Grieco, uno dei pochi dirigenti comunisti rimasto in Italia, a commento della marcia scrisse un fondo dal titolo “Pietigrotteide”: aveva capito tutto. Allora rispetto a tutto ciò, Filippo Turati con tutto il suo positivismo era un gigante e la sua proposta di “Rifare l’Italia” era l’unico programma realistico per salvare la democrazia. Prima i massimalisti, poi massimalisti e comunisti resero impossibile questa operazione che era l’unica di grande spessore che proveniva dal movimento operaio e che “parlava” all’Italia, non ai comitati centrali dei partiti. Ma Turati (e con lui Mondolfo, vedi: “Sulle orme di Marx”) non va neanche sottovalutato per ciò che disse sulle conseguenze negative che avrebbe avuto la scissione sullo scontro in corso fra la democrazia e il fascismo e nel 1921 fece straordinarie previsioni sul comunismo (il suo sbocco totalitario, il suo successivo fallimento che avrebbe costretto i comunisti a tornare sui loro passi e a riconoscere la veridicità di quello che stavano dicendo quei rinnegati dei riformisti), quello che i dirigenti del Pci, con tutto il loro sofisticato bagaglio culturale di stampo idealista e storicista, avrebbero “scoperto” fra gli anni ’80 e gli anni ’90 del XX secolo. Ma non era tutt’oro quello che riluceva neanche nel rapporto fra Bordiga-Gramsci e fra Gramsci e Togliatti. Quando verso il 1923-1924 Gramsci prese le distanze da Bordiga che aveva comunque una larga maggioranza del partito, Togliatti fu a lungo incerto sul da farsi. Comunque Gramsci tenne duro e sul rifiuto di Bordiga del “fronte unito” andò alla rottura. Però solo in seguito alla “bolscevizzazione” (termine che stava per la totale conquista stalinista del movimento comunista), i dirigenti russi sostanzialmente “commissariarono” il PCd’I nominando un nuovo Comitato Centrale e un nuovo Comitato esecutivo al quale chiamarono Togliatti, Scoccimarro e Gramsci. Successivamente Gramsci fu nominato segretario politico, carica che prima non esisteva. Grazie a questa forzatura operata dall’alto alla fine Gramsci e Togliatti all’inizio del 1926 al Congresso di Lione conquistarono il PCd’I a larga maggioranza, come ricorda Biagio De Giovanni. Le cose, però, non si fermarono qui. Avendo conquistato pienamente il potere nel partito Stalin iniziò una guerra senza quartiere contro i trotskisti e le altre minoranze. A quel punto, poco prima di essere arrestato, nell’ottobre del 1926 Gramsci mandò una lettera a firma dell’ufficio politico del PCd’I al Comitato Centrale del partito russo nella quale esprimeva profonda “angoscia” perché vedeva verificarsi e approfondirsi una scissione nel gruppo centrale leninista che era stato sempre il nucleo dirigente del partito e dell’Internazionale e arrivò ad affermare: «Voi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Pci dell’URSS aveva conquistato per l’apporto di Lenin». Togliatti si guardò bene dall’inoltrare quella lettera al Comitato Centrale del partito russo e rispose a Gramsci in modo durissimo giustificando pienamente quello che stava accadendo nel PC: «Vi è senza dubbio un rigore nella vita interna del PC dell’Unione. Ma vi dev’essere. Se i partiti occidentali volessero intervenire presso il gruppo dirigente per far scomparire questo rigore essi commetterebbero un errore assai grave.» A sua volta Gramsci scrisse a Togliatti che la sua risposta gli aveva fatto «un’impressione pessima», che «tutto il tuo ragionamento è viziato da burocratismo.» Da allora i due non comunicarono più direttamente neanche per interposta persona. Non vorremmo abbassare il livello della riflessione sviluppata da De Giovanni, ma, leggendo Togliatti allora e dopo, nel 1956-1957 e fino al 1964, abbiamo l’impressione che tra i filosofi indicati da De Giovanni nel retroterra culturale e politico del Pci se ne debba aggiungere un altro abbastanza importante, cioè Giuseppe Stalin. Poco dopo la rottura con Togliatti Gramsci fu arrestato. Poi nel 1928 al VI Congresso dell’Internazionale Comunista ci fu la “svolta”, una svolta settaria: la situazione generale dell’Europa venne ritenuta prerivoluzionaria mentre i socialisti vennero ritenuti obiettivamente alleati dei fascisti. Di qui la teoria del socialfascismo che poi Berlinguer avrebbe di fatto riesumato contro Craxi, utilizzando le analisi di Antonio Tatò (vedi l’ultimo libro di Paolo Franchi, Il tramonto dell’avvenire). Di fronte alla durezza della svolta Togliatti, che in quegli anni aveva assunto posizioni vicine a quelle del “destro Bucharin” ebbe guai seri e ovviamente si salvò adeguandosi. Anche sulla svolta Gramsci fu in dissenso e per questo fu emarginato nella comunità dei prigionieri comunisti. Comunque da lì partì Gramsci, cioè da un impianto fortemente antistalinista, per elaborare una teoria della conquista del potere nella società occidentale che non poteva avvenire attraverso la rivoluzione con le armi, ma attraverso la conquista del “cervello” di quelle società, realizzata inserendosi e acquisendo le fondamentali “casematte” costituite dalla scuola, dalla magistratura, dal giornalismo, dall’editoria, dagli intellettuali e da tante altre cose attinenti alla “sovrastruttura”. Certamente nell’elaborazione del concetto di egemonia Gramsci si riferì ai tre grandi filosofi di cui ha parlato De Giovanni. Uno stalinista rozzo avrebbe bruciato i quaderni scritti da Gramsci nel carcere e nella clinica Quisisana. Uno stalinista organico, ma sottile e duttile come Togliatti, anche lui formatosi in quella temperie culturale coltivata nel suo foro interno, prese quei quaderni, forse ne fece scomparire uno, ne costruì, con il sostegno di una falange di “intellettuali organici”, un’interpretazione che cancellava il profondo antistalinismo che li caratterizzava e ne fece il fondamento per “rifondare” appunto il Pci, per fare il cosiddetto partito nuovo, il partito che aderiva alle “pieghe” della società italiana, che andava al di là della classe operaia (“Emilia rossa” e ceti medi). Lungo questa ispirazione Togliatti cooptò come nuovi dirigenti dei trentenni colti di estrazione borghese, fece svolgere al partito anche il ruolo di una sorta di “lavatrice” di trascorsi fascisti di larga parte degli intellettuali italiani che così passarono dai contributi dell’OVRA ricevuti durante gli anni ’30 alle case editrici influenzate dalla Commissione cultura del Pci (Mario Alicata) lungo gli anni ’40 e ‘50. Un’operazione perfetta che aveva un solo limite: tutto questo impianto politico-culturale che nella impostazione di Gramsci doveva servire a liberare un partito comunista dell’Occidente dall’ipotesi leninista della conquista per via insurrezionale del potere e dal “cesarismo” staliniano internazionale invece, attraverso Togliatti che dirigeva tutto lo spartito, fu segnato dal legame di ferro con l’URSS e con Giuseppe Stalin. Questo legame di ferro con l’URSS fu ribadito anche dopo la morte di Stalin e dopo il rapporto segreto di Kruscev quando fu repressa nel sangue la rivolta d’Ungheria. Di qui il 18 aprile 1948 e tutti i risultati elettorali successivi, fino al 1994 compreso. La maggioranza dei cittadini italiani convalidò con il voto la collocazione internazionale dell’Italia nell’Occidente in seguito alle regole del patto di Yalta e sostenne i partiti che la condividevano, in primis la Dc con i suoi alleati laici. Veniamo qui alle ragioni per cui in Italia non c’è stata un’affermazione della socialdemocrazia. A nostro avviso la spiegazione di fondo è meno sofisticata di quella avanzata da De Giovanni. Al fondo non è questione di Bernstein, di Antonio Labriola e del “rinnegato Kautsky”, ma di ben altro. Paradossalmente fu lo stesso socialismo italiano a rinunciare alle sue potenziali possibilità di espansione. In sostanza ci fu una sorta di rinuncia dall’interno stesso del Psi a giocare quella carta. Ciò è evidente prima del 1921 con la crescita nel Psi di una corrente massimalista che mise in scacco il lucido riformismo di Turati: se un partito non riesce né a fare le riforme, né la rivoluzione alla fine, dal suo stesso interno, emergono i suoi più acerrimi nemici, da un lato dal 1914 al 1919 Mussolini e i fascisti, dall’altro, dal 1917 al 1921, Bordiga, le riviste Il Soviet e L’Ordine Nuovo e i comunisti. Ancora più suicida fu quello che riuscì a combinare una parte del gruppo dirigente socialista (Nenni, Morandi, più i fusionisti Lizzadri, Tolloy, Cacciatore) negli anni cruciali 1945-1948. Malgrado che il Psi fosse scomparso come struttura politica organizzata nei vent’anni del fascismo (i suoi dirigenti erano o in esilio, o nelle carceri fasciste, o a casa), tuttavia prima alle elezioni amministrative, poi a quelle per l’Assemblea costituente del 2 giugno 1946, il Psi fu il secondo partito (21%), dopo la Dc. Era evidente che una parte significativa degli elettori non lo avevano dimenticato e lo riproponevano con grande forza. Quel voto esprimeva la domanda di un socialismo autonomo, di stampo laburista, conflittuale con la Dc, ma del tutto altra cosa rispetto al Pci, a Stalin, all’Urss e al Pcus. Ebbene, Nenni e Morandi (non parliamo dei fusionisti) non risposero affatto a quella domanda degli elettori e anzi fecero esattamente il contrario, cioè il Fronte popolare con il Pci, addirittura la lista unica in esso, e poi aderirono anche allo stalinismo come ideologia e Nenni si guadagnò il premio Stalin dando la copertura come Togliatti all’assassinio di Slansky e di altri. Fu su quella scelta scellerata, più che sul patrocinio di Bernstein o di Benedetto Croce, che non decollò un autentico e forte partito socialista di stampo riformista e occidentale in Italia. Saragat, forte della sua cultura austromarxista aveva capito tutto, ma fece l’errore della scissione e dell’alleanza subalterna con la Dc. La perversione politico-culturale di Nenni e di Morandi colpì il Psi in anni cruciali, decisivi per definire la forza, il peso e l’egemonia dei partiti per tutta la Prima Repubblica, cioè dal 1948 al 1994. Dopodiché, per concludere, è stata molto significativa la scelta fatta dalla maggioranza del Pci-Pds, cioè dai “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni) di scartare nettamente la proposta avanzata dai miglioristi (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Bufalini, Cervetti, Ranieri) di dare al cambiamento di nome del Pci il senso di una scelta per la socialdemocrazia e per l’unità con il Psi. Invece i “ragazzi di Berlinguer” pur profondamente divisi fra di loro (ne fa un “rendiconto” Claudio Petruccioli nella nuova edizione del suo libro) hanno scelto un’altra via, quella di ritenere comunque i socialisti di Craxi i principali nemici, fornendo, come legittimi eredi di Berlinguer, una nuova e moderna versione del socialfascismo, più adatta alla dimensione del tutto mediatica della lotta politica attuale (i socialisti considerati non più la quintessenza del tradimento ideologico, ma della corruzione e del latrocinio, di qui dall’altra parte la conclusione di un percorso che da Stalin è arrivato fino a Di Pietro). Di conseguenza, uno dei fondamenti della Seconda Repubblica è stata l’eliminazione dei socialisti, dei laici, di una parte della Dc. Si sono così affermati Forza Italia di Berlusconi, il Movimento 5 stelle, la Lega versione Salvini, la destra organica di Fratelli d’Italia. Francamente non ci sembra che quella scelta, che ha avuto il suo punto di partenza e di sviluppo in Mani Pulite, ha rappresentato un salto di qualità positivo del sistema politico italiano. Il salto di qualità c’è stato, ma in senso opposto. Per parte sua il Pd, che dovrebbe rappresentare insieme la conclusione e la totale modernizzazione di quella storia, esprime una dimensione politica esangue e asettica.
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