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Fuoco incrociato nel governo giallo verde, i 5S sfibrati dalla Lega sul condono



Più che sfibrati dalla sindrome del complotto, come hanno detto alcuni osservatori, i Cinque Stelle sembrano invece soprattutto sfibrati dalla morsa leghista. Che con un fuoco di fila a cominciare da Matteo Salvini e il suo numero due Giancarlo Giorgetti smonta di seguito ogni accusa e sospetto nei confronti della Lega sulla presunta “manina” che avrebbe cambiato il decreto fiscale. Salvini aggiunge particolari su un decreto che “Conte leggeva e Di Maio verbalizzava, mentre io ero seduto in mezzo”. Quindi avverte il capo leghista: “Incomincio ad arrabbiarmi, per scemo non ci passo”. Giorgetti in una intervista a “La Repubblica” , respingendo sonoramente al mittente ogni sospetto anche nei suoi personali confronti, aveva invitato i Cinque Stelle a “cercare la manina” in casa loro. Da qui il rilancio leghista su tutto: no al condono edilizio a Ischia (voluto dai Cinque Stelle), no agli aumenti alla Rc auto, fuoco di sbarramento contro gli oltre 80 emendamenti pentastellati al decreto sicurezza. Probabilmente le cose in qualche modo si ricomporranno. Anche perché sia la Lega e che Luigi Di Maio (ma non tutti i Cinque Stelle) per ragioni diverse hanno interesse a tenere in piedi questo governo, almeno fino alle elezioni europee. Ma il momento più alto dello scontro registrato nel pomeriggio di venerdì 18 ottobre fa emergere a tinte forti, drammatizzate, un quadro che però si era già andato delineando dalla formazione del governo. E cioè la evidente prevalenza leghista in termini di capacità di protagonismo politico nell’esecutivo, al di là di quel 32 per cento dal quale partì Di Maio nelle urne del 4 marzo e di quell’oltre 17 per cento di Salvini, cifra poi ampliata di molto dai sondaggi. Quando il gioco si fa duro, i duri della Lega incominciano a giocare. Ed è forse la prima volta in cui i Cinque Stelle testimonial dell’antipolitica si scontrano così da vicino con chi invece come i leghisti a pane e politica, pur contrastando la vecchia politica, sono cresciuti, allevando un folta schiera di sperimentati amministratori locali che oggi stanno sui banchi del governo, a cominciare dai sottosegretari e viceministri Massimo Garavaglia, Massimo Bitonci, Dario Galli. Consapevoli di questa loro “superiorità” tecnico-politica, nei giorni della formazione del governo c’erano vecchi volponi leghisti che facevano battute ironiche di questo tipo: “Tra Giorgetti e Salvini, Di Maio diventerà matto”. Ma al di là delle battute, probabilmente l’altra sera di fronte alla clamorosa uscita in tv a “Porta a porta” di Di Maio, più d’uno tra i leghisti forse ha pensato: “Non provare a toglierci il mestiere, se volevi imitare Roberto Maroni sul decreto Biondi, la carta la hai giocata molto male. Perché la politica la sappiamo fare noi”. Più d’uno tra parlamentari e cronisti politici di lungo corso la scorsa sera ha ripensato a quel rovente luglio del 1994 in cui l’allora ministro dell’Interno e vicepremier leghista del primo governo Berlusconi prese le distanze dal decreto Biondi, un allentamento sulla custodia cautelare per reati nei confronti della pubblica amministrazione, di fatto una risposta al carcere preventivo di Tangentopoli che suscitò la rivolta del pool di Mani pulite. Ci si ricorda ancora il volto marmoreo, dall’espressione a mo’ di sfinge di Maroni, che accanto a Umberto Bossi, in una conferenza stampa in Via Bellerio disse che non lo aveva letto. Ma di fatto lo aveva approvato in consiglio dei ministri, anche se il decreto fu scritto dal ministero della Giustizia dove era Alfredo Biondi. Poche, secche parole quelle dell’enigmatico “Bobo”, pronunciate con la sua eterna aria un po’ sorniona, che ovviamente suscitarono critiche e qualche ironia. Ma niente sceneggiate e il giallo durò pochissimo anche perché il decreto fu ritirato. E quello fu il primo colpo di fatto alla sorte già segnata del primo governo del Cav. Probabilmente Berlusconi allude a quel ricordo quando dal Trentino (dove intende rimarcare il ruolo di Forza Italia come ago della bilancia in quella che potrebbe essere la prima vittoria del centrodestra in quelle terre) irride: “Forse Di Maio lo ha letto ma non lo ha capito”. Comunque Maroni in quell’occasione se la cavò dicendo che non lo aveva proprio letto. Vecchia scuola leghista. La Lega è cambiata certo, da Lega Nord è diventata nazionale, da federalista a sovranista, ma Salvini e Giorgetti proprio alla scuola di Bossi e Maroni sono cresciuti. Alla scuola di una coppia che con uno spiazzante gioco delle parti mise in crisi con accordi sconfessati praticamente mentre si facevano l’ex dc Mino Martinazzoli o con uscite a sorpresa, dopo che non si vedevano più da mesi a Roma, mandarono le carte all’aria nella Bicamerale di Massimo D’Alema sulla forma di governo, facendola passare dal premierato al semipresidenzialismo. Triste un po’ chi incappava in quella navigata “coppia” padana del “gatto” e la “volpe”. La Lega, secondo molte indiscrezioni di Palazzo, di fatto favorita dall’avere a disposizione due forni (l’altro nel centrodestra, al quale Salvini significativamente alla vigilia delle elezioni in Trentino di domenica 21 ottobre ha ribadito di restare fedele) avrebbe sin dall’inizio coltivato il disegno di sgonfiare i Cinque Stelle, ottenere intanto le cose più importanti per il suo elettorato come quelle su sicurezza e immigrazione, e poi dopo le Europee semmai pensare a nuovi scenari. E questo facendo leva sul fatto che per Di Maio questa sarebbe l’ultima e unica chance, visti anche i due mandati dei Cinque Stelle, di stare al governo. I nuovi scenari potrebbero vedere una scomposizione della maggioranza di governo, con il ritorno di tutto il centrodestra e magari una pattuglia di una cinquantina di eventuali fuoriusciti dell’ala governista del MoVimento. Ma anche la Lega, se il quadro non dovesse comporsi del tutto, rischia di non dormire sonni molto tranquilli. Ecco perché Salvini avrebbe rallentato su un eventuale voto anticipato. Lo spettro che i leghisti vedono come fumo negli occhi sarebbe un governo istituzionale. E il problema è non scontentare l’elettorato di piccole e medie imprese del Nord. Che non vogliono reddito di cittadimnanza ma riduzione delle tasse. Quindi, il governo giallo-verde sembra comunque destinato ancora ad andare avanti. Almeno per ora. Con un Di Maio, che evidentemente alle prese con contrasti interni da parte dell’ala dura e pura e soprattutto con la convention di questo fine settimana “Italia a 5 stelle”, prima replica: “Salvini non faccia il fenomeno” poi però assicura (evidentemente anche se stesso) che il governo “durerà a lungo: tra me e Salvini ci sono tante cose in comune”. Ma per ora l’esecutivo appare a trazione leghista.


di Paola Sacchi

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