C'erano voluti quasi tre mesi per trovare il premier dopo le elezioni del 4 marzo. L'inedita alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle, anche quella raggiunta dopo molto tempo dal voto, sembrava aver partorito un nome che richiamava quel passo dei "Promessi sposi" in cui Alessandro Manzoni descrive don Abbondio: «Un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro». Insomma una figura destinata ad apparire, sì, ma sempre ad essere oscurata dai due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, così rampanti e presenzialisti da farne dimenticare la presenza. Se non fosse che il Presidente del Consiglio, nella Costituzione italiana, non è propriamente un pupazzo.
Se nelle diatribe tra i due vice Conte faceva quasi da paciere, senza prendere le parti di nessuno, è con la crisi europea, scattata con la consegna della missiva da Bruxelles che rigettava la manovra economica così come l'Italia l'aveva coniugata, che Conte esce dal suo guscio e si ritaglia una posizione di primo piano.
Che culmina nella frase pronunciata ieri: «Ce la dobbiamo fare. Adesso siamo andati troppo avanti per tornare indietro». No, non si riferisce a quella strada imboccata il 27 settembre, quando 5 Stelle e Lega festeggiavano in piazza e dai balconi di palazzo Chigi per la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza che stabiliva un livello di rapporto deficit-Pil al 2,4 per cento, consumando così uno strappo con l'Europa che, tra mille scossoni e rimbalzi di spread ci avrebbe portato sin qui. È invece la strada intrapresa verso l'Europa a essere irreversibile: quella trattativa che lo ha portato a convincere i due vice che il rapporto deficit-Pil non può stare al 2,4 per cento anche per quella che sembra ormai recessione; e che la sua opera più importante sarebbe convincere Bruxelles a non aprire la procedura d'infrazione che, più che le multe, ci porterebbe a una serrata del rubinetto che dispensa fondi per i contributi europei alle opere, grandi e piccole. Ma per far questo a sua volta deve convincere i due vice, e ci si sta impegnando a fondo, a ingoiare il rospo di limitare o posporre i loro progetti più cari, quelle bandiere che li hanno portati a palazzo Chigi: reddito di cittadinanza e pensioni a quota 100.
La partita non è ancora chiusa, per ora nella lotta parlamentare i partiti di maggioranza si sono solo accordati di portare per la manovra alla Camera 54 emendamenti senza i progetti a loro più cari: una questione di numeri, al Senato arriveranno anche quota 100 e reddito di cittadinanza con numeri meno sfavorevoli, nonostante l'acclarata presenza dei ribelli del decreto sicurezza e immigrazione.
L'obiettivo economico è quello di trovare, nei giorni che restano prima che la Ue dichiari l'apertura della procedura d'infrazione, un paio di settimane al 19 dicembre, 8 miliardi. E che l'attuale Eurocommissione non stia remando contro l'Italia lo dimostrano proprio Jean Claude Junker e Pierre Moscovici, che da un passo indietro italiano guadagnerebbero molto prestigio e eviterebbero grandi fastidi, riducendo a ragione il riottoso Stivale. Senza contare che sullo sfondo gli stessi paesi sovranisti tra i 28 non sono stati teneri verso l'Italia, mentre i falchi nordici capitanati dall'Olanda sono apertamente contro.
«Continuiamo il dialogo per trovare una soluzione e continuiamo intanto a preparare la nostra decisione perché l'iter della procedura è stato avviato e gli Stati l'hanno appoggiato», ha detto Moscovici entrando all'Eurogruppo di oggi, aggiungendo che «ci sono nuove proposte e idee sul tavolo che vanno nella giusta direzione ma il gap con le regole del Patto di stabilità è ancora ampio e quindi ancora non ci siamo».
di Paolo dal Dosso
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