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I rapiti dal telefonino




Siamo a tavola tra amici. Si parla, si discute, ci si scambiano ricordi. Ma ci sono due persone che non partecipano alla conversazione. Non possono. Sono immersi in un mondo a sé stante fatto di chat, post, sms, giochetti online che provengono da luoghi altri, separati e ottenebranti. Quest’odiosa abitudine ha un nome. Si chiama phubbing ed è forse una delle forme più fastidiose di maleducazione. Eppure ci si passa sopra, come se fosse un comportamento tacitamente consentito da un mondo che ormai si ciba solo di interattività, digitalizzazione, social media. On line è la chiave che sembra aprire tutte le porte.

Phubbing” è un termine nato nel maggio del 2012 nel corso di una campagna pubblicitaria promossa dall’agenzia McCaan. L’obiettivo era trovare un termine che indicasse il comportamento di chi si isola immergendosi nello schermo del cellulare. Dalla fusione delle parole “phone” (telefono) e “snubbing” (snobbare), nasce, appunto, phubbing.

Verrebbe da domandarsi: come porvi rimedio? Ma poi sorge un altro dubbio: e se questa fosse la più contemporanea forma di comunicazione? Verrebbe da dire: anche con le chat si comunica. Ma come? Bypassando il rapporto che si instaura quando a parlare non è solo la voce ma sono anche i gesti, le espressioni del viso, le risate, le lacrime. Qualcuno dirà: beh, ci sono le emoticon per esprimere gioia o dolore, riso e pianto. Troppo facile confrontarsi in questo modo. E poi, siamo davvero sicuri di interpretare nel modo giusto messaggi ingoiati come salatini e scritti altrettanto velocemente? Come capiamo i reali sentimenti di chi è dall’altra parte dello smartphone?

Chi pratica il phubbing ha il bisogno compulsivo di rimanere continuamente connesso per evitare che qualcosa gli sfugga. Fosse pure la cronaca minuto per minuto del parto di una gatta. Povera gatta, bombardata di foto mentre ha le doglie, oppure mentre mette al mondo uno per uno i suoi micini, pure loro fotografati in tutte le posizioni. Notifica dopo notifica, il mondo reale diventa addirittura fonte di disturbo.

Da questo neologismo ne derivano altri due: phubber è chi dimentica l’interlocutore e phubee la vittima di questo comportamento.

Dal 2013 è in atto la campagna di sensibilizzazione “Stophubbing” che propone continue iniziative contro l’uso estremizzato del telefono nell’ambito di qualsiasi condivisione sociale.

Nel gennaio 2016 è stata pubblicata una ricerca su Computers in Human Behaviour di James Roberts e Meredith David che cerca di rispondere a una domanda per molti versi paradossale: la mia vita è diventata la maggior distrazione dal mio cellulare? Dunque, siamo davvero arrivati al punto in cui la vita reale è solo un rumore di sottofondo che ci impedisce di calarci a mollo nel mondo virtuale?

Lo studio analizza, infatti, il mutamento delle dinamiche interpersonali causate dal phubbing.

“Questo fenomeno incide, in particolar modo, sulle capacità comunicative e le abilità di rapportarsi su un piano interpersonale, tanto nel ruolo attivo quanto passivo. Chi mette in atto l’esclusione dell’altro è portato a pensare costantemente agli eventi online da cui può essere escluso e mostra poca capacità di dominare l’impulso del controllo frequente. Chi, invece, subisce questo comportamento, accusa principalmente attacchi all’autostima. Prova frustrazione perché non riesce a ottenere in alcun modo l’attenzione dell’interlocutore.”

Come evitare le conseguenze? Potrebbe sembrare semplice ma non lo è. Innanzitutto perché è difficile far capire che un comportamento socialmente riconosciuto come normale possa invece rivelarsi nocivo. Stabilire delle regole potrebbe essere controproducente e attivare meccanismi di ribellione.

Il primo passo potrebbe essere quello di disattivare le notifiche non necessarie. Il trillo del messaggio in arrivo porta compulsivamente a guardare il telefonino. Se poi si determinassero spazi temporali nell’arco della giornata in cui non sia previsto l’uso del telefono, sarebbe un ottimo espediente per concentrare la vita sull’off-line e ricominciare a guardarsi intorno. E perché no, a comunicare con un interlocutore in carne ed ossa.


di Elena Venditti

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