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I tre candidati alla segreteria Pd ‘fingono’ di essere d’accordo su tutto, ma non lo sono su nulla



La retorica ‘europeista’ della Convention dem


Bandiere dell’Europa sul palco, assai più di quelle italiane. L’Inno alla Gioia suonato prima dell’Inno di Mameli. Lo spitzenkandidat del PSE alle elezioni del 26 maggio, Frans Timmermans, che parla dal palco, peraltro in un perfetto italiano, in un (lunghissimo e noiosissimo) pre-dibattito. Sulla Ue, ovviamente, ci mancherebbe altro che su altro... E – ma in questo caso sul piano politico e non iconografico - ‘manifesti’ sull’Europa sparati a raffica, come se piovesse. Sulla Convenzione nazionale del Pd che si è tenuta ieri all’hotel Ergife di Roma incombeva, già da giorni, quello lanciato dall’ex ministro Carlo Calenda, “#SiamoEuropei”. Corredato da ben 160 mila firme - anche se Calenda stesso riconosce che “il manifesto ‘Salvini presidente’ ha raccolto 150 mila firme in tre giorni, noi ci abbiamo messo, e con fatica, due settimane” - l’iniziativa di Calenda ha creato il caos dentro il partito e, soprattutto, tra i suoi maggiorenti. Al netto della (certa) auto-candidatura di Calenda, che pretende pure un posto in prima fila, cioè da capolista, preferibilmente nel Nord Est, ma va bene anche il Nord Ovest, di certo non al Centro né al Sud (dove il Pd rischia assai), il guaio è che il Pd ancora non sa come rispondere alle domande che lo stesso Calenda pone al ‘suo’ partito. Calenda, peraltro, anche se lo bombarda tutti i giorni, risulta iscritto al Pd (non ha votato nei circoli, ma promette che andrà a votare alle primarie aperte il 3 marzo, bontà sua), una tessera a cui – dice ora – “non voglio rinunciare perché sarei pazzo se facessi una lista fuori dal Pd per poi allearmi con il Pd!”. Il che è anche vero, ma soprattutto indica che Calenda è molto furbo: fuori dal Pd una lista collegata rischierebbe di non prendere il 4%, la soglia di sbarramento fissata per le europee (il sistema è proporzionale con le preferenze e neppure un capolista è sicuro dell’elezione, ma sotto il 4% non passa nessuno), un rischio che l’ex ministro nato ‘bene’ non può correre. A tal punto che pure sua madre, la regista Cristina Comencini, che prima sembrava non volesse aiutarlo – “A me non mi vota neanche mia madre”, si lamentava lui - ora invece ha deciso di ‘scendere in campo’ per il pargolo, tanto che alla presentazione del suo manifesto c’era, seduta in prima fila, lui si è commossa citandola, lei è uscita dal consueto riserbo dei borghesi ‘pariolini’ e ha rilasciato interviste per dire che, insomma, ‘il ragazzo’ va sostenuto, ecco quanto.


Il manifesto di Calenda agita il giorno di passione dei dem tra accuse di boicottaggio e copie sbiadite


Ma il Pd si vuole davvero ‘alleare’ – si fa per dire – con lui, con il ‘giovane prodigio’ già da ragazzino, figurarsi oggi? Le risposte, tanto per cambiare, vedono in disaccordo i tre candidati alla segreteria dem che si fronteggeranno alle primarie aperte: Zingaretti appare molto freddo, anzi: gelido, Martina è a dir poco entusiasta, dell’idea calendiana, mentre Giachetti, da buon renziano (Renzi e Calenda, quando erano al governo, litigavano un giorno sì e l’altro pure), resta assai diffidente. Senza dire del fatto che l’iniziativa di Calenda proprio all’ex mentore di Giachetti, l’ex premier Renzi, toglie spazio – casomai dovesse davvero volerlo fondare lui, un partito – perché occupa proprio quel ‘centro’ liberale e riformista su cui Renzi ha messo gli occhi e le antenne da tempo: pur non essendoci ancora deciso al grande passo, i vari Scalfarotto e Gozi con i loro comitati civici - che, per ora, sono un partito in nuce – proprio a quello stesso spazio politico ‘calendiano’ mirano. E così, ieri, a sorpresa, ecco uscire un altro ‘contro-manifesto’ - sempre super-europeista, si capisce – proprio all’Ergife: viene proposto ai vari candidati dai 26 europarlamentari dem. Segue il turbinio di polemiche su chi ha avuto l’idea per primo e chi vuole ‘fregare’ l’altro. Zingaretti è accusato da Calenda – che si catapulta, non previsto, all’Ergife, e prende anche la parola, minaccioso - di aver sobillato, via Goffredo Bettini, la raccolta di firme. Seguono vicendevoli rassicurazioni e una (finta) tregua. Eppure, non ci fosse stata la gara sul tasso di ‘europeismo’, la Convenzione nazionale del Pd sarebbe stata di una noia mortale. I tre contendenti alla carica si punzecchiano, ma senza fare nomi. Martina propone una mozione di sfiducia a Salvini e sottolinea che “io non attacco i governi del Pd” (sottinteso: Zingaretti sì). Giachetti urla “Mai con chi ci ha distrutto!”, cioè Mdp-Leu (sottinteso: Zingaretti ci si vuole alleare). Zingaretti ribatte: “Trovo umiliante e mi offende dover dire che non voglio alleanze con i 5Stelle. Chi mi accusa, imparasse a sconfiggerli” (sottinteso: gli altri due). Insomma, la giornata che dovrebbe essere di ‘unità’ tra i pretendenti al trono (trono, peraltro, ormai nella polvere) se ne va tra i soliti veleni, le solite accuse tra candidati e le solite claque delle diverse tifoserie portate in massa e che, ormai, suonano patetiche, oltre che stucchevoli.

Eppure, Calenda è in campo, ormai anche da un po’, e al Pd potrebbe stare anche bene, perché il ‘campo’ del Pd, così, un po’ si allarga (verso il ‘centro’ del mercato politico, di certo non verso la sua ‘sinistra’, ma questo è un altro paio di maniche), però Calenda si allarga, pretende, lancia diktat sotto forma di proclami. Di fatto, vuole ‘comandare’. E questo, ovviamente, ai big – o presunti tali – del Nazareno già sta meno bene. E dunque la domanda diventa, parafrasando la nota richiesta di Stalin ai suoi generali sul Papa, “ma quante divisioni ha questo Calenda?”. Ecco, non si capisce bene. Tanta ottima stampa, molto uso di Twitter (Calenda risponde ‘di pirsona pirsonalmente’ a tutti proprio lui, non ha uno staff che glielo cura, e risponde a tutti-tutti), ma i voti veri sono un’altra cosa. E poi, visto che nel Pd usa – da sempre – la strategia delle alleanze, con chi si dovrebbe alleare il Pd, in vista delle Europee, oltre che con il succitato Calenda, che più che un ‘alleato’ è già, di fatto, un ‘candidato’ del Pd medesimo (cioè uno a cui i poveri e pochi iscritti dem dovran portare – loro – i voti, mica altri)?


Il Pd cerca alleati, ma per ora non li trova…


Ecco, non si sa, non si capisce. I Verdi? Hanno nominato due nuovi giovani portavoce e non vogliono andare col Pd. La nuova ‘Più Europa’? Ha eletto segretario, al congresso, Benedetto Della Vedova e non si vuole alleare con il Pd, ma casomai proprio con i Verdi. Il nuovo soggetto politico ‘Italia in comune’, fondato dal sindaco di Parma, Federico Pizzarotti (ex M5S, ma ormai un lustro fa), e animato da un ex prodiano, oggi deputato iscritto al gruppo Misto (eletto, si capisce, dal Pd in un collegio blindato, alle ultime elezioni politiche), Serse Soverini? Non si sa, forse, ma anche ‘Italia in Comune’ potrebbe cercare la strada dell’alleanza ‘lib-lab’ di centro con Verdi e ‘Più Europa’, anche se con scarse possibilità di superare, in tre, il 4%. Con la sinistra radicale, allora? Ci si vuole alleare, ad oggi, solo Zingaretti. O più che lui, che resta cauto, per non essere accusato di voler riesumare ‘la Ditta’, il suo colonello, Massimiliano Smeriglio, che lo dice a ogni intervista. Segue polemica degli altri candidati che urlano ‘avete visto?! Zingaretti vuole riesumare la Ditta!’. Segue smentita di Zinga, segue nuova polemica, poi parla D’Alema e ci mette il carico da undici, Zinga prende le distanze, ormai va avanti così da mesi, forse Smeriglio – e, impossibile, D’Alema. dovrebbe smettere di dare interviste. Peraltro, Zingaretti, in realtà, pensa a un dialogo (serio) solo con ‘alcuni’ esponenti e gruppi della sinistra radicale. Laura Boldrini già dice di volerlo votare alle primarie. E lì c’è sempre un altro, di un'altra mozione, che salta su e dice: ‘Alt! La Boldrini non può votare alle primarie! E’ iscritta al gruppo di Leu!’ Ma le primarie non sono, appunto, ‘aperte’? Non basta, lo dice lo Statuto del Pd, riconoscersi nei ‘valori’ del Pd e del centrosinistra per poter votare? La povera Boldrini cosa dovrebbe rinnegare? Mah, non si sa. Poi, ovviamente, Zingaretti pensa a Leu, certo, ma solo al suo ‘lato’ Mdp di Bersani e Speranza, con dietro D’Alema. Infatti, l’ala che fa capo a Pietro Grasso e a Sinistra italiana di Nicola Fratoianni se ne andrà in un'altra lista – o ‘listina’ – di ‘sinistra-sinistra’ con Luigi De Magistris, il sindaco descamisado di Napoli, quel che resta del Prc e Pap – cioè Potere al Popolo – e qualche altro rebelde e radical italico, anche se si dubita che questo raggruppamento ‘alla Syrizia’ alla carbonara possa realmente superare, anch’esso, il 4%. Quindi, resterebbe, appunto, Mdp. Ma per ora non si può dire e, tantomeno, fare che Mdp entri in coalizione con il Pd (senza, però, Mdp è di fatto destinata all’estinzione da sola) e bisogna aspettare, almeno, che Zingaretti vinca il congresso e diventi segretario (magari proprio con i voti di un po’ di militanti di Mdp che, zitti zitti, andranno a votare, alle primarie) per aprire una prospettiva di collaborazione. Anche perché, se vincesse Martina, e a maggior ragione se vincesse Giachetti – per quanto la possibilità sia irrealistica – quelli di Mdp sconteranno la loro condanna fuori dal Pd.


Un brutto spettacolo. La Convenzione nazionale


Insomma, alla fine della fiera, il Pd, ad oggi, non ha alleati. Tanto vale, dunque, concentrarsi – e scannarsi – all’interno. Certo, l’assenza dei ‘veri’ big si nota, e pesa eccome. Renzi, ovviamente, non si fa vedere, la Boschi neppure, Gentiloni è negli States, Veltroni è in giro a scrivere articoli per il Corsera (e/o, forse, a pensare a un nuovo film), Enrico Letta è in giro a promuovere il suo nuovo libro, Romano Prodi se ne guarda bene, dal farsi vedere (anche se, a modo suo, cioè invitandolo a pranzo a Bologna, a mangiare i ‘tortelli’, e facendo uscire la notizia, si è schierato con Zingaretti per la gioia di ‘Zinga’, ovviamente) ma insomma, non c’è manco Andrea Orlando, che diamine. E così, la ‘giornata uggiosa’ dei dem serve solo a certificare le esatte percentuali ottenute dai sei candidati che si sono presentati al ‘primo turno’, il voto tra gli iscritti, e a decretare i primi tre che andranno al ‘secondo turno’, le primarie aperte, perché gli ultimi tre restano, invece, a casa, tranne il contentino di aver parlato ieri, appunto. Quei ‘cinque minuti di celebrità’ che non si negano a nessuno. A sfidarsi saranno Nicola Zingaretti (47,4%, 88.918 voti), Maurizio Martina (36,10%, 67.749) e Roberto Giachetti (11,13%, 20.887). I votanti sono stati 189.023, il 50,43% degli iscritti (sono 385.115, ma hanno votato in 374.786 perché in ben cinque province, per vari motivi, commissariamenti e altri guai interni, non si è votato). In pratica, ha votato un tesserato dem su due, assai pochi, e pochi saranno, forse, pure il 3 marzo (un milione, si spera). Tra gli esclusi, Boccia invita a votare Zingaretti, la Saladino ‘endorsa’ Martina, Corallo se la prende un po’ con tutti. L’intervento di Zingaretti è molto seguito sui social con picchi di 1.550 visualizzazioni a fronte delle circa 800-1.000 di Giachetti e delle circa 7-800 di Maurizio Martina. Pure analizzando l’andamento degli hashtag “primariePd” e “ConvenzionePd”, Zingaretti figura sempre avanti con un volume di 1.5K, poi Giachetti e ancora Martina con la metà. E anche Nicola Piepoli, il primo sondaggista a sbilanciarsi, sostiene che Zingaretti vincerà le primarie del Pd, il 3 marzo, ma solo con il 51% dei voti, appena sufficiente per evitare che il nuovo segretario venga deciso in Assemblea. Martina arriverebbe secondo con il 40% dei consensi e terzo, ma molto lontano, Roberto Giachetti, fermo al 9%. Ai gazebo, per Piepoli, andrà un numero relativamente basso di elettori del Pd. La stima sull’affluenza non va oltre un milione, per Piepoli, e nel Pd fanno gli scongiuri perché per dire che non sarà un flop bisogna portarne nei gazebo almeno un milione e mezzo. L’ultima volta, infatti, quando vinse Renzi, al voto andarono in 1 milione e 800 mila. Certo, l’avversario era Orlando, ma il confronto, stavolta, sarebbe davvero impietoso. Per capirci, ‘devono’ essere almeno un milione e mezzo ad andare ai gazebo e così sarà.


La partita vera, quella dei gazebo, inizia adesso


La partita vera, quella interna, però inizia solo adesso. Zingaretti, come si è detto, incassa il sostegno di Boccia, il cui 3% tra gli iscritti (7500 voti in termini assoluti) lo spinge oltre il 51%, mentre con Martina si schiera l’unica donna candidata, Maria Saladino (0,7%). Il rischio che la campagna si avveleni rimane forte, soprattutto sul tema della discontinuità rispetto al renzismo. E più che la vittoria finale, il tema sul tavolo rimane l’unità del Pd, soprattutto dopo il passaggio decisivo delle elezioni europee.: resterà un partito unito o qualcuno – Giachetti, per dirne uno, visto che lo ha già minacciato – se ne andrà forse ‘con il pallone’ se un altro che vincesse (Zingaretti, per dirne un altro) volesse rifare ‘la Ditta’, reimbarcando gli ex ‘compagni’?

Peraltro, la Convenzione nazionale, è un organismo inutile: dura un giorno, non prende nessuna decisione e si scioglie subito dopo. Si tratta di uno dei residui del lungo e barocco meccanismo congressuale del Pd, nato ai tempi di Veltroni per cercare di conciliare i fautori del “partito liquido”, raccolti attorno al segretario di allora, e quelli del “partito solido”, cioè gli ex diessini dalemiani (oggi in buona parte fuori dal partito) e i popolari di Franco Marini. Quest’ultima area voleva riaffermare l’importanza degli iscritti, a scapito degli elettori delle primarie: così s’inventò il congresso in due tempi, prima i circoli e poi nei gazebo. Al termine della prima fase, i delegati degli iscritti – eletti a livello provinciale –partecipano alla Convenzione nazional che ufficializza il passaggio dei tre candidati a segretario più votati nei circoli alla fase decisiva delle primarie. Sono mille i delegati arrivati nella Capitale, distribuiti sulla base delle percentuali ottenute dai singoli candidati a livello locale e suddivisi tra le varie regioni secondo due criteri non banali: il numero dei voti presi dal Pd alle politiche del 2018 e la media degli iscritti negli anni 2016-2017. Le regioni più rappresentate sono Lombardia (129 delegati), Emilia-Romagna (111) e Toscana (107), seguite da Lazio (90), Campania (78), Puglia e Sicilia (60). In 31 sono arrivati perfino dall’estero per un dibattito di mezza giornata. E’ stato, dunque, tutto davvero inutile? Non proprio. Innanzitutto, perché gli interventi dei tre candidati segnerà l’iinizio della campagna per le primarie. E inizierà a darle un tono. E poi c’è un altro aspetto: i maggiorenti locali delle diverse mozioni si sono incontrati per la prima volta de visu tra loro e con i loro rispettivi candidati. Ora toccherà a loro ‘gambe in spalla e pedalare’. Perché va bene le primarie ‘aperte’, ma alla fine – e soprattutto con un numero di votanti che si preannuncia, appunto, assai basso – saranno i ‘capi bastone’ locali e i ‘signori delle tessere’ a decidere chi vincerà e quanto. Oltre agli elettori democrat (iscritti, militanti, simpatizzanti) ‘veri’, si capisce, però. Perché quelli, in fondo, gli elettori ‘veri’, ancora ci sono. Sempre meno, ma ci sono. Chi vincerà, alla fine? Si vedrà.


di Ettore Maria Colombo

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