Non tutti sanno che un fondamentale contributo alla nascita ed affermazione della “pubblicità” fu realizzato dallo psicologo Joh Watson che, costretto a dimettersi dall’università a causa del suo rapporto con una studentessa, fu assunto come vice presidente di una agenzia pubblicitaria.
Watson, scomparso nel ’58, aveva elaborato un nuovo paradigma che si allontanava dal metodo introspettivo di Freud e che prese il nome di comportamentismo, che poi applicò alla promozione pubblicitaria introducendo innovazioni tecniche quali la collocazione strategica di prodotti nelle vicinanze della cassa, utilizzo di personaggi famosi, rilevazione dell’efficacia degli spot.
Il comportamentismo applicato alla pubblicità ebbe un grande successo, in particolare nelle tecniche per la selezione del personale e per renderlo più efficiente, sull’assunto che il comportamento esplicito dell’individuo sia l’unica unità di analisi oggettivamente studiabile in quanto basata su stimolo e risposta.
Oggi ci sarebbe un bisogno estremo di un nuovo Watson per ripristinare una logica professionale nella pubblicità, che col passare del tempo è sempre più invasiva e meno efficace e condivide con la politica le modalità della comunicazione.
Infatti nella comunicazione attuale sono prevalenti due fattori: la persecuzione e l’ipocrisia, elementi che, soprattutto abbinati, rendono il messaggio inutile e inutilmente costoso.
Il primo è la manifestazione pratica della mancanza di profondità del messaggio pubblicitario: pressione televisiva costante, ripetuta, senza sosta, che interrompe la visione di un programma, qualunque esso sia, una specie di tormentone.
Il secondo elemento è rappresentato dalla falsità: famigliole felici, cucine gigantesche, nonni divertenti con i capelli bianchi, automobili color oro, o giallo ocra, cui le donne dedicano pensieri amorosi, assicurazioni mai sentite che rendono la vita comoda, poltrone che corrono appena uno fischia, bambini gioiosi e ubbidienti, un mondo che non solo non esiste ma che visto con l’occhio dei pubblicitari è stupido, ottuso, oleografico, convenzionale.
Tutti gli elementi fondanti un buon messaggio pubblicitario vengono capovolti perché non vi è alcuna cultura degli effetti e delle cause.
Vengono utilizzati personaggi che il pubblico rigetta per avallare l’acquisto di beni, così come vengono inventate storielle prive di senso per giustificare l’esistenza di prodotti.
Nessuno studia l’effetto della lunghezza di uno spot, che pertanto annoia e infastidisce, così come si tenta di accreditare la figura di un imprenditore accostandolo a presentatrici improbabili, o ormai vetuste, o perennemente sui giornali scandalistici.
Anche le trasmissioni subiscono questo meccanismo, ed è esemplificativo della abilità di Antonio Ricci il caso di “striscia la notizia” che, trainato da due ballerine seminude, che però vengono ormai accettate dalle famiglie e dalle nonne, ha man mano affinata la strategia, cercando, anche tramite il rinnovo dei presentatori, di non annoiare ed invecchiare.
Le annunciatrici di sinistra, giornaliste o meno, giocano d’astuzia con il fascino dell’intraprendenza e della intelligenza, ma in realtà, pur volendo distinguersi dalla Gregoraci, vogliono apparire anch’esse belle e desiderabili mettendo in imbarazzo ospiti impacciati e semplicioni che la destra non riesce ad emarginare. Una buona parte dei protagonisti della politica dovrebbero, se fossero coscienti delle tesi di Watson, non apparire in televisione.
Torniamo, sia nel caso della pubblicità, che in quello della pubblicità/comunicazione utilizzata dalla politica e dallo spettacolo, ad una frattura più o meno estesa tra ambiente e risposta, come è ben visibile nel settore cinematografico ove il prodotto nazionale è rifiutato in gran parte del pubblico perché sia le tematiche che molti attori producono un effetto negativo. Ma come ormai noto, nel nostro paese i film vengono realizzati non per il pubblico ma per arraffare più tax credit possibile.
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