Il giorno del day after lo scontro tra la Lega da una parte, Conte e i 5Stelle dall’altro, sul ‘caso Siri’ (il sottosegretario alle Infrastrutture indagato per corruzione perché tirato in ballo in alcune intercettazioni che riguardano un’inchiesta della procura di Roma per possibili transazioni in denaro in cambio di un emendamento sull’eolico), non è affatto un giorno in cui si cercano di raccogliere i cocci per rimetterli insieme. Al di là di alcune dichiarazioni di rito, come quella del leader della Lega, Matteo Salvini (“Il patto con i 5Stelle vale cinque anni, la mia parola vale”, parole peraltro condite da una nemmeno troppo larvata minaccia (“Spero che valga anche la parola degli altri”), i 5Stelle non intendono mollare l’osso. Siri va ‘dimissionato’ e basta.
Se Siri “non si dimette si vota in consiglio dei ministri e noi abbiamo la maggioranza assoluta, i numeri sono dalla nostra parte” dice Luigi Di Maio all’Intervista di Maria Latella su Skytg24. La frase sembra un’ovvietà, ma non lo è. Infatti, se è vero che le cose stanno così (il numero dei ministri pentastellati è più del doppio di quello della Lega) se e quando – si dovrebbe tenere l’8 o il 9 maggio – si aprirà il cdm in cui Conte formalizzerà le dimissioni coatte di Siri, vedere plasticamente la scena dei ministri 5Stelle che votano a favore e di quelli della Lega che escono dalla sala o votano contro vorrebbe dire, nei fatti, aprire la crisi.
Di Maio, inoltre, dice “che la Lega faccia cadere il governo per un caso di corruzione sarebbe veramente clamoroso”, ma anche questa frase non aiuta a rasserenare gli animi. Anche Salvini – inviperito perché Conte lo ha messo di fronte al fatto compiuto mentre si trovava a Budapest, per incontrare Orban, almeno quanto Conte (e Di Maio) lo sono perché lui e Siri hanno concordato, l’altra sera, la ‘nota’ del sottosegretario in cui chiedeva ancora “15 giorni di tempo” per “essere sentito dai magistrati”, prima di dimettersi – non prende bene gli strascichi polemici del ‘caso Siri’, anche se finge di parlare d’altro. “Conte mi sfida sul caso Siri? Sfidiamoci sulle tasse, su qualcosa che interessa gli italiani, non sulla fantasia”, risponde il leader leghista.
Per Salvini in questo Paese c’è un’emergenza e non è la questione morale ma tagliare le tasse il prima possibile. “Ogni giorno perso è un giorno che non torna più”, commenta il vicepremier nel corso di un comizio a Fidenza. Ovviamente è la flat tax, per il vicepremier, la priorità. “Qualche alleato di governo sulla riduzione delle tasse dice di ‘parlarne più avanti’. Io dico che ridurre le tasse al 15% per famiglie e imprese è urgente per l’Italia. Ridurre le tasse è la vera emergenza di questo Paese”, continua. Con tanto di riferimento poi proprio alla sua visita in Ungheria: “Ieri sono stato con il presidente del Consiglio ungherese a lezione di riduzione fiscale, cosa che vorrei fosse realtà anche in Italia, invece vedo che qualcuno ha tempo da perdere polemizzando su altro, non sono io”. Insomma, i due leader dei due partiti al governo sono – come si usava dire nel film Il Padrino – “a materassi”, allo scontro finale.
Anche il commento del sottosegretario alla Presidenza, Giancarlo Giorgetti, non aiuta di certo a rasserenare l’aria: “Rompere la coalizione? Non so, si tratta di decidere se si vuole perdere tempo con le dichiarazioni e i giornalisti o se si vuole lavorare. Io lavoro tanto, forse troppo”. Che è un modo come un altro per dire, appunto, “Non ne posso più”. Inoltre, al netto dei governatori leghisti – da Zaia a Fontana – che ‘stressano’ Salvini affinché faccia cadere, “e subito”, il governo, va registrata la presa d’atto dell’intera tolda di comando leghista in merito alla posizione scelta da Conte, sia sulla vicenda Siri che su molti atti precedenti a questo. Una posizione non più ‘terza’ e ‘bipartisan’, imparziale, ma tutta “schiacciata su Di Maio e M5S cui tiene il cordone”, sbottano i leghisti. Perché, dunque, continuare a sostenere un governo di cui non ci si fida più, dal partner (Di Maio) al premier (Conte)? Per i leghisti sta diventando un problema. E la sola soluzione che vedono sono, appunto, le elezioni.
Va anche detto che la destituzione di Siri non per sua volontà, ma coartata, “è un atto politico” – come spiega bene l’ex presidente della Consulta, Cesare Mirabelli, all’Adnkronos, e va controfirmato dal Capo dello Stato. Infatti, intervistato da Federica Mochi, Mirabelli parla di una “proposta di revoca dall’incarico” che “potrebbe diventare un atto politico. “Il Consiglio dei ministri nomina su proposta del Presidente del Consiglio i sottosegretari e si considera che possa esistere anche un potere di revoca - premette Mirabelli -. Ciò non vale per i ministri, che sono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio. Questo il punto di vista formale”. "La proposta di revoca - spiega Mirabelli all’Adnkronos - deve essere comunque messa ai voti, l’iniziativa è sua e suo è il potere (del premier,ndr.). Probabilmente si tratta di un atto che serve a stimolare le dimissioni di Siri ma qualora le dimissioni non ci fossero e la proposta venisse mantenuta, il Consiglio dei ministri delibererà nel suo ufficio”. E se alcuni ministri votassero in dissenso, chiede la giornalista? “Il Cdm è un organo collegiale - sottolinea il presidente emerito della Corte Costituzionale - perciò vale normalmente la regola della maggioranza. Il Cdm si esprime pressoché all'unanimità. Se non ci fosse unanimità, potrebbe esserci un voto a maggioranza, dentro il cdm”. La richiesta di Conte “è un atto formale - ribadisce Mirabelli - perché la responsabilità politica è del governo. I sottosegretari non hanno attribuzioni proprie ma gli vengono delegate dal ‘capo del dicastero’. La revoca delle deleghe fa mantenere al sottosegretario il suo status, la revoca dell'incarico lo elimina dalla squadra di governo”.
Solo che Mattarella – che, dicono ambienti ben informati del Colle, si sta mestamente preparando all’ineluttabile, e cioè ad elezioni politiche anticipate – non ha nessuna voglia di essere tirato in ballo in una vicenda così torbida e oscura.
L’assillo del Colle – che ha sempre, come faro, il “prestigio dell’Italia in Europa e nel mondo” e la “tenuta e solidità dei conti pubblici del Paese” – è, però, un altro. Al Quirinale, ormai, ci si sta rassegnando all’ineluttabile, e cioè alle elezioni politiche anticipate. Il quadro politico, sempre più inclinato, prevede – nelle analisi e nelle stime del Colle – la ‘vera’ crisi di governo che si apre subito dopo le Europee, dati i mutati rapporti di forza che si instaureranno tra i due partiti della maggioranza gialloverde. E dopo qualche – formale e di prammatica – tentativo di formare un nuovo governo (una riedizione, rimpastata, del precedente, guidato da Conte o un governo tecnico), verificata l’impossibilità di trovare una maggioranza in Parlamento, non resterà altro, al Quirinale, che sciogliere, seppur a malincuore, le Camere.
Certo, resta un busillis non da poco: la data del nuovo voto. Al Quirinale pensano di sbrogliare la matassa così: dato che sarebbe impossibile, con la crisi di governo che deflagra, andare a votare entro fine luglio (servono almeno 45 giorni di tempo per indire i comizi elettorali), la prima data utile diventerebbe quella di metà o al massimo fine settembre. Se, invece, qualcuno cercasse di forzare la mano a Mattarella per andare a votare a ottobre, quando la manovra economica va presentata sia alla Commissione Ue che alle Camere, se lo tolga dalla testa: per quella data – diciamo il 15 ottobre, al massimo – il Quirinale vuole avere il nuovo quadro politico chiaro e delineato: nuove Camere convocate e suoi organi insediati, consultazioni (lampo) già fatte. Postilla del Colle a chi chiederà o proporrà la crisi di governo: se non si vota a fine settembre, sarete voi – cioè questo governo – a fare la prossima legge di Stabilità e resterete uniti e alleati, al governo, perinde ac cadaver. Insomma, o vi separate adesso o non lo velo faccio fare più.
di Ettore Maria Colombo
Comments