Il giallo che si è consumato ieri sera tra gli studi di Porta a Porta, le stanze di Palazzo Chigi e quelle del Quirinale, semmai possa meritare l'appellativo di giallo senza che il fantasma della Christie ci perseguiti per questo, fa sprofondare ai limiti del grottesco la credibilità del governo e della tanto sbandierata compattezza delle sue componenti gialle e verdi.
Tutto inizia nel pomeriggio, quando Luigi Di Maio è nel regno di Bruno Vespa per la registrazione della puntata serale di Porta a Porta. D'improvviso un allarme, qualcosa non va e il capo politico dei 5 Stelle vacilla. Fosse stato un generale dell'arma avrebbe gridato allo scandalo sull'intelligence straniera che si è impossessata dei piani di guerra, o ancor meglio, che ha manipolato i nostri, di piani. Ma la coltellata alle spalle, o presunta tale, non arriva dai servizi segreti, né da nessun nemico, da nessuna guerra. L'oggetto dello scandalo è il decreto fiscale da recapitare, bello infiocchettato, al Quirinale. Ma c'è qualcosa nel contenuto, come fanno candidamente notare al vicepremier, che non quadra con quanto annunciato. Al capitolo "condono" si parla infatti di scudo fiscale e non punibilità per gli evasori, qualcosa, come ribadito dal delfino di Beppe Grillo, di non concordato nelle lunghe sessioni di Cdm.
Atterrito, Di Maio passa alla controffensiva, fosse anche per non fare la figura dello sprovveduto davanti a centinaia di migliaia di italiani (operazione di dubbia riuscita). «Domani presento denuncia alla procura della Repubblica», prima di smentirsi in fretta e furia, come quella volta che doveva accusare il Capo dello Stato di alto tradimento, una volta giunta la rettifica, prima dal Quirinale che fa sapere di non aver ricevuto alcun decreto (semmai un'anticipazione in via informale) e successivamente dal premier in persona che fa sapere di aver bloccato tutto quanto lui e di voler prendere in prima persona parte al processo di revisione del decreto «punto per punto». Delle due l'una: o c'è stato davvero quel sabotaggio paventato da Di Maio e a questo punto l'alleanza di governo avrebbe le ore, forse i minuti, contati o quel «noi siamo seri» fatto recapitare ai pentastellati dagli ambienti della Lega indicherebbe che tutti, compreso Di Maio e lo staff, fossero a conoscenza dei cavilli in questione e li avessero in qualche maniera avallati. Un condono senza saperlo, un lapsus lungo tutto il tempo che ci è voluto a partorire la manovra fiscale più chiacchierata degli ultimi anni. In ogni caso qualcosa scricchiola dalle parti di Palazzo Chigi e non sono certo le solide mura.
«Lo sapevano tutti» azzarda un poco sorpreso Massimo Garavaglia, sottosegretario all'Economia di area leghista, alla domanda dei cronisti su chi fosse a conoscenza del contenuto, nel dettaglio, del decreto fiscale da recapitarsi al Quirinale. Se anche il capo politico grillino ne fosse a conoscenza non ci è dato saperlo, anche se il «non lo so...» di Garavaglia lascia qualche spiraglio alla fantasia di ognuno. E infine, alla fatidica domanda se fosse proprio la sua la "manina" che avrebbe dato vita al putiferio, quella che tra il silenzio e la distrazione di qualcuno avrebbe modificato il decreto, il sottosegretario è gelido quanto sintetico: «No».
Lo scontro nel governo, magari dietro le tendine dell'apparenza, sembra alle porte e già qualcuno dipinge ritratti di schiere di leghisti da una parte e grillini dall'altra pronti ad affilare le armi, chissà forse, per la resa dei conti. «Per noi un testo così finisce dritto nella pattumiera», fanno sapere all'Adnkronos fonti del Movimento 5 Stelle. Chissà che con il decreto non ci finisca tutto il cambiamento, nella spazzatura.
di Alessandro Leproux
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