Si fa presto a dire "cambiamento", un po' meno a realizzarlo. Ne sa qualcosa il sedicente governo alle prese con una realtà che non vuole saperne di collimare con i suoi allettanti slogan. Se Confindustria prima, l'Ocse poi e qualche agenzia di rating a contorno ci riportano sul pianeta con una stima di crescita che nel 2019 si attesterà attorno allo zero, con buona pace di quel già dimenticato Paolo Savona, senza di cui non si poteva muovere foglia in estate, che ci raccontava di un rassicurante 2% con il segno più davanti, salvo poi lasciare la palla all'attuale titolare del Mef Giovanni Tria, che ha migrato verso un più modesto 1%, per poi cedere di fronte all'evidenza impietosa dei numeri (smentendo una manovra correttiva che, per analogia a questo punto, attendiamo al varco), sembra crescere ogni giorno il partito del cambiamento mancato, che fa anche rima con sbagliato.
Cambiare infatti, quando lo si fa, non è certo sinonimo di migliorare. Anzi, sulla scia degli entusiasmi populisti, per cui una gettata di cemento su tutto ciò che può essere additato come "passato" equivale già a una vittoria, spesso le parole saziano più dei deludenti e magri risultati. In campo internazionale, dove si additavano "quelli prima" di asservimento ai cabalistici "poteri forti" dell'Europa e dei mercati, l'attuale esecutivo ha iniziato puntando i piedi e ingrossando la voce, per poi scusarsi e chinare il capo al primo rimbrotto del padre padrone. Tanto i temi economici, con la estenuante "trattativa" sul deficit (2,4, anzi 2,2, anzi 2,04) imposta da quella Europa "che a noi ci fa un baffo", quanto la questione immigratoria, dove sembravamo sul piede di guerra con Francia, Spagna e Germania, insomma, l'ala fondatrice e se vogliamo direttrice del progetto europeo, per schierarci con i "bulli" guidati dal Salvini dell'Est Viktor Orban, certificano una doppia velocità e soprattutto una doppia faccia dell'inesperto team guidato dal professor Giuseppe Conte. Un team specializzato nel vendere benissimo ciò che non può o non riesce a realizzare. Sul tema dei diritti umani, dove invece il cambiamento inizia ad avvertirsi, siamo messi anche peggio. L'ondata di un velato razzismo, peraltro inedito ai temperati climi italiani, fomentatato da retoriche anti immigrazione che hanno finito per includere anche quegli immigrati che qui già ci sono da tanto o poco tempo, porta anch'essa il cognome del cambiamento, sebbene l'ala grillina giochi a disconoscerne la paternità. Sulla gestione dei flussi e degli sbarchi il cambiamento trova la sua migliore rappresentazione: dalle odiose speculazioni emerse dalle indagini degli anni scorsi, che hanno portato alla luce veri e propri business dietro al fenomeno migratorio, siamo passati alla chiusura dei porti, alle morti silenziose in mare, dove le navi delle ong sono taxi al soldo dei criminali, e alla sponsorizzazione dei lager del nuovo millennio dove molti dei pochi fortunati sopravvissuti ai viaggi della speranza nel deserto, finiscono incarcerati, torturati e spesso ammazzati. Un cambiamento coi fiocchi, quello che pone fine alla «pacchia».
C'è anche un altro cambiamento, che fino a pochi giorni prima della sua inaugurazione portava il sigillo del patrocinio di Palazzo Chigi, ed è quello andato in scena a Verona. Il Congresso delle Famiglie, insuccesso o grave insuccesso che sia stato, rappresenta il giro di boa sull'idea di famiglia e società che, almeno metà dell'esecutivo (con qualche sorpresa anche nell'altra faccia) ha e pensa di poter portare avanti. Un'idea che poggia sull'assioma che tutelare le minoranze e le diversità comporti in qualche modo una discriminazione per il pensiero dominante. Un'assurdità che si spiega da sola e a cui bene hanno risposto le tante contromanifestazioni andate in scena nel fine settimana.
Sul capitolo sicurezza il cambiamento sembra finora darsi la zappa sui piedi. Il decreto Salvini che chiude i Cara, luoghi di delinquenza e minaccia per la collettività, o esempi di integrazione, solidarietà e progresso sociale (a seconda della lente scelta), ha fino ad ora prodotto la certezza che tutti quei richiedenti asilo già sul nostro territorio e a cui non spetta più l'accoglienza negli Sprar, siano per strada a incrementare il già evidente danno. Anche sui rimpatri di quanti non vengono considerati ammissibili di protezione umanitaria (i cosiddetti migranti economici) il cambiamento ha lasciato lo zampino, peccato che siano di meno rispetto ai numeri della gestione Minniti. In compenso il cambiamento ci ha portato la legittima difesa che, in barba ai principi di proporzionalità che muovono il diritto penale in materie tanto delicate, consentiranno di far fuoco anche sul ladro disarmato, in situazione di evidente pericolo per l'incolumità nostra e dei familiari.
Su quota 100 e reddito di cittadinanza, sebbene sparare sulla Croce rossa sia facile come rubare caramelle a Di Maio, è giusto concedere il beneficio del dubbio, fiduciosi che il cambiamento non tradirà nemmeno, e soprattutto, lì, dove tutti lo attendono con i forconi.
Una materia, però, mette tutti d'accordo, governi di ieri e di oggi, in una continuità che è inno alla italica tradizione: il cambiamento del parco auto. Di Maio, che ha già istituito un'indagine interna per venirne a capo, se la prende con qualche clausola o postilla, eredità "di quelli prima", ma tant'è che 9mila auto blu, per un totale di 168 milioni, andranno a rimpolpare il nutrito assetto da strada dei nostri politici. Un'ironia della sorte che più ironica non si può, quella che svela le trame del cambiamento affinché nulla cambi per davvero.
di Alessandro Leproux
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