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Il monito delle banche: «L'Italia come l'Argentina se non sceglie l'Europa»


Un monito, neanche a dirlo, giunto dall'alto dei "poteri forti". Una velata intrusione nei conti italiani che sa tanto di tentativo di muovere i fili invisibili, ma assai tangibili, dell'economia europea.


Dall'assemblea annuale dell'Abi (Associazione italiana banche) il presidente Antonio Patuelli ha stilato un quadro che come al solito vede l'Italia in bilico tra l'adempimento dei propri doveri sulla riduzione del debito pubblico e il tracollo dovuto a una pressione gravosa su banche e risparmiatori. Nonostante la situazione sia migliore rispetto a quella del 2015, in piena crisi del settore bancario, restano ancora molti gli sforzi da fare in questa direzione e, specifica apertamente Patuelli, i rischi dal non partecipare con sempre più implicazioni all'Unione Europea e alle sue strategie possono portare a derive nazionaliste «simili a quelle avvenute in Sud America». Vecchio pallino del presidente dell'Abi è quello di un'Europa unita anche nel credito e nell'assetto bancario: «L'Unione Bancaria deve consentire ai sistemi nazionali di garanzia dei depositi di poter effettuare interventi preventivi per le banche in crisi, per evitare danni maggiori. E anche una maggiore razionalizzazione dei costi per gli interventi. Chiediamo che le norme dispongano che ciascuna banca debba contribuire ai Fondi di garanzia di cui può teoricamente usufruire e non ad altri». La creatura nella sua forma finale, quella di un'Europa manovrata dall'alto a colpi di spread e tagli delle spese, con un unico organo centrale di riferimento, che stroncherebbe del tutto le resistenze nazionali e anti sistemiche.


Insomma un richiamo all'ordine ben preciso che non è però passato inosservato. Se da un lato anche il capo di Bankitalia Ignazio Visco, prendendo la parola all'assemblea annuale di Abi ha voluto ribadire il monito dell'assoluta necessità di proseguire sul campo delle riforme, sia in Italia che in tutta l'Ue, per non incorrere in una crisi che ci vedrebbe «più vulnerabili rispetto alla precedente», con l'obbligo intrinseco di proseguire sulla massiccia riduzione della spesa pubblica, ci ha pensato il titolare del ministero di via XX Settembre, Giovanni Tria, a chiarire la situazione e a rincuorare un'Europa sempre molto attenta alle scadenze dei conti, un po' meno alla pelle di chi quei conti li paga.

«L'attenzione che porremmo alla crescita non sarà meno importante a quella che porremo al rispetto dei vincoli di bilancio», ha precisato Tria. Il ministro premette che «le condizioni di salute dell'economia italiana sono ancora buone, ma dagli indicatori ci arriva un rischio moderato di rallentamento della crescita, (minori dinamismo nelle esportazioni dei beni strumentali, minore propensione al consumo negli Stati Uniti), in particolare i dazi preoccupano le imprese e desta preoccupazione l'allargamento delle misure. L'Italia è un Paese esportatore, siamo esposti agli effetti diretti e indiretti del protezionismo». Un messaggio chiaro di chi sa benissimo di rappresentare una forza nuova e teoricamente in rottura con gli schemi che hanno guidato fin qui l'Italia nella situazione in cui si ritrova, ma conscio che nessun passo potrà essere compiuto in solitudine se si vuole rimanere ancorati al progetto comunitario.

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