202 a favore, 432 contrari: una debacle annunciata quella della premier Theresa May, andata a Westminster col cappello in mano per chiedere ai deputati di approvare l'intesa faticosamente raggiunta con l'Unione Europea. Una sconfitta che brucia particolarmente perché oltre alle opposizioni e ai 10 deputati nordirlandesi le hanno votato contro almeno un centinaio del suo stesso partito, i conservatori.
Prima conseguenza: oggi si vota la mozione di sfiducia contro il suo governo chiesta dal leader del Partito Laburista Jeremy Corbyn, il cui intento dichiarato è quello di mettere i conservatori in minoranza per indire immediatamente elezioni anticipate con cui prendere possesso di Downing street. Una speranza difficile da realizzare perché i "tories", pur se scontenti della loro premier, non accetteranno di vederla sfiduciata, lasciando così aperte le porte ai laburisti; e men che meno vorranno tentare la roulette russa delle elezioni anticipate, che potrebbero veder prevalere Corbyn.
Ma un'altra conseguenza del voto è che il Parlamento inglese ha detto no a Theresa May e al suo accordo con l'Ue, ma anche detto no alla stessa Brexit. Secondo il leader storico dei liberal-democratici a Bruxelles, Graham Watson, intervistato dal Corsera, «è il Parlamento a decidere cosa fare, Westminster ha preso il controllo del processo della Brexit. Deciderà di prorogare l'articolo 50 o di revocarlo del tutto; quindi si resterà nell'Unione Europea. E questo perché il referendum del 2016 era solo consultivo. Ci sarà chi griderà al tradimento della volontà popolare, e per questo si convocherà un secondo referendum».
Ma l'articolo 50, che fissa per il 29 marzo 2019 la data ufficiale della Brexit, se da una parte potrebbe effettivamente prorogare l'uscita dall'Ue dell'Inghilterra, dall'altra si scontra con la data delle prossime elezioni europee, cioè tra il 23 e il 26 maggio. Sono in molti i giuristi che parlano di una proroga di poche settimane alla Brexit, non quel termine congruo, un anno o più, che vorrebbero nella maggior parte del governo e della politica inglese, per poter negoziare un'uscita migliore o addirittura per non uscire per nulla. E d'altra parte, se si applicasse l'articolo 50 e tutti e 27 gli stati concedessero una proroga oltre il 26 maggio, gli stessi inglesi dovrebbero presentare candidati e farli eleggere convocando le elezioni europee anche nel loro territorio: una beffa per chi ha votato per la Brexit, questo sì un tradimento della volontà popolare. E già il ministro degli esteri spagnolo Josep Borrell ha espresso il suo no a una data che scavalcasse quella del voto comunitario.
Theresa May è provata ma non doma, tanto da «rassicurare il popolo britannico, che ha votato per lasciare l'Unione Europea nel referendum di due anni fa. Ritengo che sia mio dovere portare a compimento quelle istruzioni, e intendo farlo». Ha anche detto, subito dopo il voto, che «se la fiducia al governo verrà confermata, procederò in modo costruttivo per fare progressi e trovare una soluzione che abbia il sostegno dei deputati». Insomma, May va avanti, ed in fondo è l'unica cosa che possa effettivamente fare, visto che davanti a sé continua a volteggiare lo spettro del "no deal", l'uscita disordinata dall'Europa con la diminuzione del Pil e il crollo del valore della sterlina , e quindi l'impatto anche sul resto del continente.
di Paolo dal Dosso
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