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Il sistema Franceschini


di Michele Lo Foco

Tramontata la figura di Franceschini che ha, tramite i suoi fiduciari, oscurato qualunque forma di contestazione delle sue leggi e dei suoi regolamenti, (agevolato in particolare dall’Anica di Rutelli che lì ha piantato le tende), si pone per il nuovo Ministro il compito arduo di risollevare il settore spettacolo ridotto ormai alla estinzione.

Cerchiamo di analizzare il disastro partendo dalle norme.

Innanzitutto il tax credit: evaporato il tax shelter, che agendo sui guadagni non è mai stato applicato, e dimenticato il tax credit esterno, oggetto prevalentemente di malversazioni e imbrogli, Franceschini ha spinto l’acceleratore sul tax credit interno, cioè su quella forma di sostegno che calcolata sul budget del film, consente percentualmente di compensare IVA e contributi durante le lavorazioni del film, o di cedere il sostegno a banche consenzienti.

Il ragionamento politico è stato: visto che con il tax credit esterno le norme venivano aggirate per ottenere i contributi, diamo la possibilità di ottenerli lo stesso con un altro metodo.

Il ragionamento pratico dei produttori è stato: visto che il tax credit è una percentuale sul budget del film, aumentiamo i budget. Pertanto da allora il costo dei film è aumentato dal 20 al 40 per cento e sono diventate fondamentali le figure del commercialista e del consulente ed imprescindibili le fatture false.

Quando lo Stato ti riconosce il 40% del budget in tax credit e nessuno controlla la sostanza, è ovvio che il meccanismo è perfetto per arricchirsi ai danni dello Stato. E’ successo analogamente con il bonus edilizio, con la differenza che le costruzioni sono più facilmente verificabili, mentre un film non lo è.

Ma lo spreco di denaro pubblico non è l’unica conseguenza. Anche con Veltroni e il suo “interesse culturale” lo Stato perse 500miliardi di lire. In entrambi i casi il danno maggiore è stato la modifica della corretta gestione del prodotto filmico: se lo scopo è accaparrarsi le risorse statali non serve avere storie e sceneggiature di livello, non serve che il prodotto possa affrontare il mercato con successo, basta farlo, portarlo a termine, perché il produttore ha già guadagnato.

Faccio un esempio semplice per chiarire i concetti: se un film costa effettivamente quattro milioni di euro, e tramite fatture false il costo sale a 6, il tax credit è di circa due milioni.

Pertanto quattro milioni di costo effettivo meno due milioni di tax credit portano il costo vero a due milioni, somma nella quale sono già presenti due voci, la producer fee (cioè la remunerazione del produttore) e le spese generali, per un totale di minimo il 10% calcolato sul costo fittizio.

Pertanto dai due milioni effettivi vanno tolti 600mila euro, portando il costo vero ad un milione e 400mila.

Se Rai partecipa al prodotto con due milioni, il produttore ha già guadagnato seicentomila euro più i seicento sottratti prima.

Risultato finale: costo film, sei milioni di euro, guadagno del produttore prima dell’uscita del film nelle sale, più o meno un milione, perdita dello Stato due milioni circa.

Risultato nel mercato: il film, essendo costato meno, e comunque modesto, non incassa né in Italia né all’estero.

Risultato nel settore: il produttore si è arricchito comunque a patto che abbia un buon rapporto con Rai, con la banca e con i fornitori e pertanto è pronto per altre operazioni.

Questo è il motivo per il quale la produzione nazionale incredibilmente aumenta mentre i ricavi diminuiscono. Detto diversamente il settore non produce utili, si impoverisce, ma gli imprenditori e gli speculatori aumentano. Chi ci rimette? Lo Stato e pertanto i cittadini. Ma questo Franceschini non lo avverte, anzi dichiara che il cinema gode ottima salute!

Proseguiamo con l’analisi del sistema Franceschini: se il produttore non ha come scopo quello di avere successo, viene meno l’attenzione ai gusti del pubblico e aumenta quella dedicata ai burocrati ed alle commissioni. Chi facilita questo sistema? Coloro che acquistano il film o lo coproducono e coloro che possono decidere i contributi ministeriali.

Pertanto diventa fondamentale conoscere e collaborare con queste persone, entrarci in confidenza, essere accettati.

Il povero produttore indipendente non ha altra strada che quella di mettersi fuori della porta dei burocrati ed aspettare che si accorgano di lui, che gli diano una mano, magari una volta l’anno, a costo di accettare che il burocrate gli indichi gli sceneggiatori, gli attori, perché no il regista. Il film diventa il prodotto del burocrate.

Abbiamo detto produttore indipendente, ed ecco che tocchiamo con mano il sistema Franceschini: lo Stato deve agevolare il produttore indipendente, quello autonomo che investe e lavora ed è quindi obbligatorio definirlo. A lui sono destinati i contributi.

Chi è un produttore indipendente? Franceschini deve proteggere i potentati, non può consentire che vengono esclusi dalle facilitazioni statali e pertanto….è produttore indipendente quello che lavora per la stessa ditta o azienda per non più del 90% del proprio fatturato.

Ed ecco risolto il problema: se una azienda, tra quelle che devono essere tutelate, lavora per la Rai per il 90% del suo fatturato ebbene questa azienda è un produttore indipendente.

Che ci vuole a completare il 10% che manca?

Il sistema interviene anche in questo caso: Rai Fiction finanzia e appalta il prodotto al 100% ma fittiziamente al 90%, così il produttore fa finta di “metterci del suo” e poi completa il fatturato con un filmettino da quattro soldi.

Pertanto tutti, ma proprio tutti, sono produttori indipendenti, anche i potenti finanziati dalle strutture, alla faccia dei veri produttori indipendenti che non hanno entrate e che realmente sviluppano il loro fatturato composto al 100% da film faticosamente realizzati.

Risolto anche questo aspetto, rimane quello dei contributi selettivi, cioè di quei sostegni statali attribuiti alle categorie di film (opere prime e seconde, documentari, film difficili, film di animazione) e valutati da specifiche commissioni scelte dal ministro.

La vecchia legge 1213 determinava che le commissioni vedessero i film “finiti” e fossero composte dai rappresentanti delle categorie, produttori, distributori, attori, esercenti, ministero, più presidente nominato dal Ministero.

Oggi le commissioni sono scelte dal ministro, esaminano i prodotti sulla carta, valutandone le potenzialità, ma in realtà favorendo costantemente i potenti dai quali sono remunerate in qualche modo. Così i potenti aggiungono al tax credit anche i finanziamenti selettivi, cui si aggiungono quelli automatici, che sono una ulteriore diversa forma di sostegno, determinato da un calcolo misto tra incasso/sala/share e qualità.

In più il film può godere del finanziamento regionale o delle agevolazioni delle film commission.

Ricapitolando, i potenti, che hanno uffici e dipendenti che si occupano esclusivamente di aspetti burocratici, mettono insieme tutte le forme di sostegno e le portano in banca che mette a disposizione la liquidità necessaria per la produzione.

Con quello che avanza comprano attici e barche.

Il vero produttore indipendente, invece, che non ha i soldi nemmeno per la sceneggiatura, occupa il suo tempo cercando di incrociare le segretarie dei burocrati, (spesso nemmeno loro sono disponibili), e si affannano tra bandi, Rai e piattaforme ricevendo quasi sempre risposte negative.

Ogni tanto, quando hanno la fortuna per esempio di intercettare un libro di successo, riescono a farsi ricevere e forse a creare interesse.

Franceschini, in tutti gli anni di governo, non ha capito che il cinema non consiste nell’erogare soldi agli esercenti, o a regalare soldi ai distributori che non distribuiscono, ma consiste nell’offrire un prodotto, che si chiama film, ad un pubblico interessato all’argomento, alla storia, alla recitazione. Perché mai la gente dovrebbe spendere sempre nove euro per vedere un film intimista, con attori di nessun pregio, quando con nove euro può vedere un filmone americano o un cartone animato straordinario?

Il film è il prodotto, non l’aria condizionata o i popcorn: il cinema, la sala, vende questo prodotto che Franceschini ha ridotto ad un business da faccendieri.

Ma lo sa l’ex ministro, di avere oltretutto finanziato in prevalenza strutture estere?

Lo sa che le sale italiane, per una percentuale che supera il 50%, sono nelle mani di fondi americani e cinesi? Lo sa che il Commissario Montalbano è in mano francese, che la Lux non è più italiana, che più del 50% dei prodotti televisivi sono stranieri? Lo sa che la Disney incassa di media da Rai Cinema 70 milioni di euro l’anno? Lo sa che alcune delle produttrici più accreditate sono socie di minoranza di Sky? Lo sa che le piattaforme più famose, Netflix, Amazon, non hanno un telefono e parlano solo con gli amici degli amici?

Onestamente credo che l’ex Ministro tutto questo lo sappia.

Ma andiamo oltre – Cinecittà!

Tralascio quello che è stata perché ci vorrebbe un libro, ma non posso non ricordare che Franceschini ha ricomprato da Abete tutta la struttura che il robocop statale Blandini, con Rutelli ministro, aveva venduto ad Abete al grido di “…basta baracconi statali.”

Ebbene Abete ha riempito di debiti i teatri di posa, non ha pagato gli affitti, non ha fatto manutenzione e con l’acqua alla gola ha offerto di nuovo Cinecittà allo Stato, che invece di punirlo lo ha remunerato.

Perché tutto questo? Non mi spingo oltre, ma certamente Franceschini aveva bisogno di una struttura qualunque per indirizzare i finanziamenti europei che altrimenti non avrebbe saputo dove collocare.

Ed ecco che Cinecittà, una specie di bidonville senza nemmeno il DURC (correttezza di regolarità contributiva) può diventare Hollywood, e per questo ci vuole un esperto, ma non di cinema, di gestione fondi, come Goffredo Bettini, già socio di Veltroni nel primo festival di Roma, quello costato più di ventimilioni di euro. Oggi il festival inutile non costa più di quattro milioni.

Sistemati i fondi, sistemato il gestore, messo in vetrina Nicola Maccanico, il manager che a quattro anni è stato nominato amministratore delegato dell’asilo nido, il gioco è fatto, e di Cinecittà non se ne parla più, se non qualche volta su Box Office, con foto di Maccanico a cavallo.

Il quadro è quasi completo: ci si è messo anche il Covid a dare una mano a Franceschini, sale chiuse e tutti a casa a vedere le piattaforme che hanno centuplicato i fatturati senza pagare le tasse.

La Guardia di Finanza ha definito Netflix società “occulta”, come la mafia, la ‘ndrangheta, la massoneria.

La Francia, che vende il doppio dei biglietti cinematografici dell’Italia, che esporta cento volte più di noi, (non abbiamo più un attore riconoscibile), fissa in 15 mesi il termine trascorso il quale un film possa traslocare in televisione: noi 95 giorni, cioè tre mesi, diminuiti da Franceschini di ben 15 giorni dagli originali 105.

E una persona normale dovrebbe spendere quei soliti 9 euro per vedere un film, soprattutto italiano, sapendo che poco dopo lo vedrà in televisione o su una piattaforma che costa dieci euro al mese?

Una persona normale, un normale cittadino, è meglio non sappia che quel miserabile film è stato finanziato dallo Stato come film “di particolare qualità artistica” o altrimenti come film “difficile”. Con queste definizioni sono stati promossi film di zombie, commediacce italiane di serie b, farneticazioni di registi presuntuosi e alle prime armi.

Un cittadino per bene è meglio non sappia che l’azienda di Stato perde decine di milioni di euro per produrre film che non superano l’incasso di un ristorante periferico, per pagare attori che la gente ufficialmente rifiuta, attrici che sono le favorite di qualcuno, in un meccanismo ormai collaudato cui Franceschini ha dato protezione, nel quale le posizioni di privilegio dei burocrati sono sultanati senza limite e senza controllo.

Questo è il meccanismo ed il panorama che si offre al nuovo Ministro, al quale auguro buon lavoro e nel quale tutti gli operatori veramente indipendenti sperano affinchè restituisca al settore quello che ormai non c’è più: libertà, professionalità e onestà.

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