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Il tracollo sardo costringe i 5S a cambiare: tra i dogmi tiene solo la restituzione degli stipendi



Il post tracollo elettorale in Sardegna, il secondo dopo la sconfitta abruzzese, segna l'inizio della fase "ripensamento" del Movimento 5 Stelle. Letteralmente oscuratosi per due giorni da social e telecamere dopo che il candidato Fdi Marco Marsilio aveva trionfato prendendosi la regione Abruzzo appena quindici giorni fa, questa volta il capo politico grillino Luigi Di Maio ha voluto guardare in faccia la realtà e, in una mezza ammissione di colpevolezza, annunciare possibili e necessarie riforme strutturali in seno al movimento che si fa via via sempre più partito nella sua tradizionale accezione. I sentori, per la verità, c'erano già tutti e poggiano proprio sulla scollatura evidente che c'è tra la fan-base 5S a livello nazionale che si dissolve quasi del tutto quando la questione si fa locale. La scelta dura e pura di andare da soli, contro tutto e tutti, non paga e nemmeno i ripetuti attacchi a «liste e listoni» di altri hanno sortito l'effetto domino auspicato.


Lo fanno in nome della poltrona, già recita più di una voce. Quale che sia il motivo, in casa 5 Stelle nessuno è contento dell'andazzo generale che ha preso l'esperienza al governo, dove la Lega continua a macinare e Salvini a rodere consensi al tartassato delfino di Beppe Grillo, e le batoste elettorali a livello amministrativo hanno avuto il solo effetto di accelerare questi dissapori. Un primo elemento oggetto di discussione (tutte le possibili novità passeranno infatti per il voto degli iscritti alla piattaforma Rousseau) è l'annullamento del tetto del doppio mandato per i consiglieri comunali, con possibilità per questi di ricandidarsi alle regionali o alle politiche (sulla possibilità di eliminarlo anche a livello regionale Di Maio è rimasto vago). In secondo luogo si vaglierà la possibilità di affiancarsi, nelle tornate elettorali a livello locale, alle liste civiche, purché «vere, non ammucchiate». Ultima istanza, apparsa più come una impellente necessità, la creazione di una segreteria centrale, in grado di determinare una linea condivisa, che potrebbe allargarsi anche a delle sezioni territoriali per venire incontro alle richieste della popolazione su scala ridotta ed evitare così di presentare "perfetti sconosciuti" come candidati. Per ultimo, excusatio non petita, il leader pentastellato ci tiene a precisare che «l'anima del Movimento non cambia, diventa solo più adulto», lasciando pochi dubbi su una certa predisposizione dei politici a tinta gialla di avvalersi della psicologia inversa. È storia, infatti, come progressivamente, man mano che i tempi lo richiedono, il Movimento si sia fatto trasformista, costi quel che costi, pur di mantenersi in auge: prima via l'obbligo per gli indagati di dimettersi, via libera all'immunità parlamentare se il parlamentare in questione tiene in piedi il governo, via il tetto del doppio mandato... per ora si salva solo l'obbligo della "decima" verso la casa madre, ma abbiamo dubbi che su questo verranno fatti interventi sostanziali.

A legittimare il tutto, dal palco di uno dei suoi spettacoli, a Catania, ci ha pensato proprio il padre morale dei 5S Beppe Grillo che, tra il serio e il faceto, ha detto quello che i suoi si sentono ripetere dal lontano 2010 e cioè che «forse non siamo all'altezza, forse siamo principianti come dicono». Smentita dai diretti interessati (Di Maio e lo stesso Grillo) una qualche diatriba interna, l'uscita del comico può considerarsi un via libera a quelle riforme interne che renderebbero sicuramente il Movimento più competitivo, a discapito della propria anima. Un altro indizio sarebbe rappresentato dalla possibilità di iniziare le votazioni su Rousseau già da domani, a caldo, per incentivare gli iscritti ad abbandonare la vocazione barricadera sulla scia del malcontento post Sardegna.

E mentre in Senato c'è chi se la rideva, sfoggiando un insolito gilet arancione con la scritta "steward" (un malcelato invito a Di Maio a riprendere la carriera poc'anzi lasciata), dentro le fila del Movimento c'è addirittura chi, come la senatrice Elena Fattori, attenta alla carica doppia del vicepremier in vesti di ministro e capo politico del Movimento. Dal bunker, elmetto in testa e fucile in braccio, la replica è secca: «Il ruolo del capo politico si discute tra quattro anni. La carica dura cinque anni». Dal Movimento alla Prima repubblica basta un battito di ciglia.


di Alessandro Leproux

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