Da città eterna a città dell'eterno scandalo. Non c'è pace per la capitale, stritolata dalla morsa della corruzione e della furberia, incatenata e costretta a rivolgere lo sguardo al passato per rinfrancarsi di un po' di gloria che fu. Non è rimasto che questo a Roma, sperare in qualche ritrovamento di un certo valore archeologico, scavare nel suo passato per sentirsi ancora giovane, ancora viva. E invece sono i fatti a smentirla, a dimostrare che, almeno quando si parla di opere, grandi o meno, Roma è morta e sepolta. Schiacciata dalla politica e dai suoi giochi meschini, dall'imprenditoria che fa a gara per guadagni facili, da faccendieri, saltimbanchi, nani e ballerine che l'hanno resa lo scenario sempre più triste della sua decadenza. Una metropoli ferma, non fosse per i milioni di macchine che la affollano, bloccata nel tempo e incapace di scrollarsi di dosso questi pesi che non le consentono il salto nel futuro e nella modernità.
Non stupisce allora se, al termine dell'indagine della Procura capitolina, guidata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Erminio Amelio, sui cantieri della epica (nel senso di persa tra mito e realtà) Metro C, venticinque persone risultino indagate e a rischio processo per reati che vanno dalla corruzione al falso, sino alla truffa. Contestati circa 320 milioni elargiti dal Comune e altri enti pubblici tra il 2011 e il 2013 sulla base di false fatturazioni emesse dagli indagati. Nell'indagine compaiono inoltre episodi di corruzione legati alle assunzioni di parenti e amici di funzionari pubblici.
Ma ciò che davvero non sorprende è leggere tra i nomi dei venticinque che potrebbero finire alla sbarra, anche quello dell'ex sindaco Gianni Alemanno. Per uno come lui, che i procedimenti legali li colleziona sin da quando era ministro per le Politiche Agricole e Forestali del secondo e terzo governo Berlusconi (coinvolto marginalmente nello scandalo Parmalat) e quindi abituato ad avere a che fare con toghe e avvocati, stranamente con maggior frequenza in seguito ai suoi provvedimenti di chiusura dei campi rom della capitale, non deve essere stata una giornata poi troppo diversa dalle altre.
Un mandato pieno il suo, dal 2008 al 2013, segnato da una sequela di comparizioni nei più pesanti scandali che hanno coinvolto la città da inizio millennio. Archiviata la sua posizione (e la conseguente accusa di concorso esterno in associazione mafiosa) rispetto al processo madre di Mafia Capitale, il ribaltone dei giudici che scoperchiò un sistema, appunto mafioso, di gestione della cosa pubblica fatto di tangenti e corruzione a capo dell'ex banda della Magliana Massimo Carminati e del gestore della coop incriminata «29 giugno», Salvatore Buzzi, l'ex sindaco è stato comunque rinviato a giudizio per corruzione, avendo secondo i giudici ricevuto una somma vicina ai 300mila euro, da parte del condannato Fabio Panzironi, ex ad di Ama, in cambio di connivenza dell'apparato comunale al sistema di gestione mafioso perpetuato dai condannati nel processo.
Ma è soltanto il più celebre dei procedimenti giudiziari che hanno visto coinvolto l'ex sindaco e membro di An. Tra gli altri si ricorda quello della vicenda Menarini Breda, la società facente parte del gruppo Finmeccanica che fornì nel 2009 i famosi 45 filobus che dovevano coprire il cosiddetto corridoio di mobilità tra l'Eur e Tor Pagnotta, rimasti per anni chiusi in un deposito, bloccati dal processo che ha portato all'arresto del vicinissimo dell'ex sindaco, Riccardo Mancini, amministratore di Eur spa e suo tesoriere nella campagna elettorale del 2008, per la maxi tangente di 500 mila euro pagata alla segreteria di Alemanno nell'ambito dell'appalto di fornitura dei mezzi.
Tra le accuse collezionate nella lunga vicenda politico-giudiziaria dell'ex ministro e primo cittadino di Roma c'è anche quella di presunto finanziamento illecito, riferita ai fatti del 2010 in cui, secondo la Procura di Roma, Alemanno ricevette impropriamente dei fondi per la campagna elettorale mascherati da finto sondaggio in favore della lista di Renata Polverini e in cui è stato rinviato a giudizio nel marzo del 2015.
Quel che emerge con preponderanza è la facilità, in un contesto come quello romano, di cadere in errore, sia che si faccia o non si faccia effettivamente qualcosa. In una città incancrenita dal marciume silenzioso che la divora da dentro e in cui una mossa sbagliata o rivolta contro i soggetti sbagliati può determinare una macchia indelebile nella carriera e nella fedina di chi si trova ad amministrarla, quella di Gianni Alemanno è una storia processuale simbolo e siamo certi che tornando indietro con la memoria il romano più vessato dai giudici dell'ultimo decennio sentenzierebbe con un lapidario "chi me l'ha fatto fare?".
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