Cala il Pil, cresce il malcontento, ma Sanremo è Sanremo. Come ogni anno, in ossequiosa osservanza delle italiche tradizioni, il Paese tutto si è fermato per una settimana per sfoggiare il meglio del suo lato trash. La sessantanovesima edizione del festival, come da manuale ritualistico, ha strabordato tra pagine di giornale e servizi del tg. Impossibile scamparvi, difficile resistere alla tentazione di scoprire qualche nuovo imberbe volto degli "artisti" che saranno o sorprendersi nel vedere scongelata qualche vecchia conoscenza. Per cinque giorni la competizione canora più costosa d'Italia ha fatto il bello e cattivo tempo, non c'è crisi internazionale che tenga. Quota 100? Meglio quota "gambe della Berté". Il reddito? Parliamo piuttosto dell'indecoroso cachet di Baglioni. È la polemica, come sempre, il vero motore del festival. Delle canzoni importa a pochi, a quei pochi che non sguazzano nello stagno dei post diretta, dei post-post diretta, dei salotti da intellettuali del mercato delle pulci. Più che un occasione, un trampolino per giovani che sognano una carriera d'oro, Sanremo è una resurrezione per qualche Lazzaro della tv nostrana, puntualmente poi riposto nel ripostiglio a prendere polvere. Per una settimana vale tutto e il contrario di tutto: i cantanti diventano attori dell'attualità, le loro parole vengono scannerizzate e passate ai raggi x in cerca di spunti per attaccare quella o quell'altra schiera politica, l'assurdo diventa ordinario e l'ordinario non esiste. Se l'edizione era partita col freno a mano dell'ombra populista che avrebbe ammantato tutto, dalla scenografia ai monologhi dei pimpanti presentatori, man mano che la gara ha preso piede l'occhio critico della platea si è spostato su altri elementi, sublimando infine sulla sempiterna diatriba del «prima gli italiani». La vittoria di tal Mahmood, ventisettenne italiano di origini egiziane da parte di padre, con la sua "Soldi", era un boccone troppo ghiotto per essere lasciato sul vassoio alla mercé di qualche dilettante avvoltoio. Per ironia della sorte, in rappresentanza degli ultimi, Mahmood ha fatto le scarpe proprio a Ultimo, rapper romano che dovrà accontentarsi del secondo piazzamento. Una vicenda molto poco populista, da zampino dell'establishment mondiale in stile Soros, penserà qualcuno. Ma come, il festival sovranista lo vince un mezzo egiziano? Ovviamente il re dei social nostrani (con la partecipazione del suo alter ego informatico, lo spin doctor Luca Morisi) Matteo Salvini ha dovuto esprimere la sua, per altro senza nemmeno mostrare che so, un maritozzo, un tramezzino... Nulla di nulla. «Mahmood....................mah......................La canzone italiana più bella?! Io avrei scelto #Ultimo, voi che dite?? #Sanremo2019». Tralasciando l'abuso d'ufficio dei puntini di sospensione (sicuramente non sfuggito al Tribunale dei Ministri di Catania) il tweet del vicepremier non poteva non destare altra polemica da sommarsi a quella ancora calda della diretta. Ma l'apoteosi è stata la risposta della ex consorte, l'Elisa Isoardi che sta riuscendo nel non facile obiettivo di far naufragare la Prova del Cuoco, gioiellino della fascia prandiale di RaiUno per anni nelle salde mani della prosperosa Antonella Clerici. «Mahmood ha appena vinto il festival di Sanremo. La dimostrazione che l’incontro di culture differenti genera bellezza. #top #culture». Core ingrato, verrebbe da pensare. Nemmeno un posto in Rai nel programma più seguito in quell'orario ha saziato l'appetito della grande ex, il cui pensiero è stato persino ribattuto niente di meno che dalla Boldrini. Apriti cielo. Ovviamente il bisticcio social a distanza è schizzato in cima alla classfica dei click e ha dato vita a un filone di chi si schiera con l'uno e chi con l'altro. La musica in tutto questo? Muore o poco ci manca. Più importante rimarcare che il popolo da casa (per altro pagando) si era espresso in un plebiscito per l'italianissimo Ultimo from San Basilio. E tra fiori, luci, risate, polemiche, invidie, rinascite, morti e acconciature degne di un manga, la domanda affiora a fatica: siamo sicuri di potercelo permettere tutto 'sto ambaradan? Per una volta, la risposta, non ha a che fare con i soldi.
di Alessandro Leproux
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