di Michele Lo Foco
Mentre assistiamo all’indegno spettacolo dei personaggi della sinistra più influente che omaggiano la Meloni sperando di poter continuare e sfruttare le strutture, ultimo dei quali la Litizzetto con i suoi 20.000,00 euro a puntata Rai, il sistema creato da Franceschini si macera in meccanismi di difesa creati principalmente dalla burocrazia o secondariamente della inefficienza degli operatori, terzo della collusione delle strutture.
Il tax credit, che superficialmente, anche da parte di acuti osservatori e commentatori come Angelo Zaccone, viene ritenuta una norma che vale per tutti, non è assolutamente così democratico come si pensa di farlo apparire per i seguenti motivi:
Il primo, quasi indicibile, è che solo le aziende di peso possono costruirsi un castelletto di fatture in eccesso, per usare un termine bonario. In questo modo il tax credit, calcolato su entità maggiorate, riduce di molto il costo del film.
Il secondo è che le banche, a tassi quasi raccapriccianti, offrono i loro servizi per operazioni corpose e non per piccoli importi. Pertanto i piccoli e medi produttori non riescono a liquidizzare i loro tax credit se non durante le riprese del film.
Ovviamente sarebbe tutto più semplice se il lavoro degli operatori fosse diciamo scorrevole e non come ora disperante: i piccoli produttori, che non hanno uffici preposti al disbrigo delle pratiche, passano le notti su internet cercando di far arrivare a Luce/Cinecittà decine di documenti che devono però nel frattempo essere nuovamente registrati, o nuovamente firmati con firma digitale, superando difficoltà derivanti dalla morte, dai trasferimenti, dalle sparizioni, dalle ripicche, dai fallimenti.
Quando poi la consegna è completa, si scopre che nella pagina sei della cessione dei diritti c’è scritto “il concedente” e non “il cedente”, e allora bisogna ricominciare la caccia mentre passa, inesorabile, il tempo ed i creditori sono alle porte.
Ma non basta: il prodotto va piazzato, perché se è vero che con il tax credit e magari con la delibera dei selettivi il piccolo produttore è riuscito a terminare le riprese, restano debiti a scadenza e l’incertezza del futuro.
Comincia allora la ricerca telefonica da parte del piccolo produttore indipendente delle segretarie dei potenti burocrati che possono decidere del futuro del prodotto, segretarie che spesso hanno a loro volta segretarie di riferimento, che bontà loro segnaleranno il caso non appena la segretaria principale tornerà dall’estero, perché sono sempre all’estero con i capi, quelli che vivono nell’olimpo dello spettacolo, quelli che parlano solo tra di loro e con i politici, quelli che camminano sempre velocemente e con il telefonino nelle mani, quelli che puoi ascoltare nelle conferenze organizzate da Vito Sinopoli, sempre costantemente uguali a se stesse.
Inutile è poi qualsiasi tentativo di raggiungere le piattaforme, Netflix, Amazon ed altre, che hanno uffici fantasma, non hanno telefoni, non sono scalabili in nessun modo.
Solo i potenti hanno i cellulari di qualcuno che conta, ma il contesto complessivo è una ignobile commedia creata ad arte per apparire e non esserci. Anica in questo sistema ha giocato il suo ruolo peggiore, ha avallato la presenza delle importantissime strutture estere, per poi nelle retrovie far dividere i ricavi tra i quattro/cinque potenti che dell’Anica di Rutelli hanno fatto il loro salotto privato.
Questa è la realtà giornaliera, vissuta da chi ha avuto modo di verificarla e di lanciare gli allarmi, che però non sono stati raccolti da nessuno perché il sistema Franceschini, con a capo Salvo Nastasi, ha fatto piazza pulita di tutti coloro che avrebbero potuto intervenire. Blandini prima e Nastasi dopo sono stati i robocop ministeriali con licenza di uccidere.
Ora, se è vero come è vero, che per creare prodotti di livello occorre arte, libertà ed onestà, ebbene queste tre parole negli ultimi anni sono state soppresse: non sarebbero mai nati prodotti come “Diabolik”, “il Principe di Roma”, “quasi orfano” se queste parole fossero state rispettate come dovuto, e non sarebbero mai state spese cifre inimmaginabili per produrre film che hanno riportato a casa un decimo del budget!
Per questo motivo quello che una volta era l’inevitabile calcolo di redditività dei prodotti oggi non viene nemmeno sfiorato: qualcuno ragiona su quanto Rai spende per il lanciamento di un film? Qualcuno riflette sul fatto che se un film al cinema raccoglie 500.000,00 euro, al produttore ne arriverano 150.000,00? Ma se quel film è costato cinquemilioni di euro, più (proviamo a dire), quattrocentomilaeuro di lanciamento, ed ipotizziamo (ottimisticamente) che una piattaforma lo paghi seicentomila euro, gli altri quattromilioniseicentocinquantamilaeuro chi li perde?
Non certo il produttore, che tra tax credit, selettivi, automatici, regionali, producer fee e spese generali si è guadagnato l’anno, non certo il distributore, che forse non ha perso ma nemmeno ha incassato, chi allora? Non certo la piattaforma, o la Rai, che sono aziende senza anima, ma lo Stato, noi, lo Stato, noi. E tutto questo perché? Perché qualcuno ha sbagliato, qualcuno ha imbrogliato, qualcuno è stato corrotto, qualcuno ha taciuto, qualcuno ha fatto carriera. Il metodo Franceschini è lo tsunami che ha cancellato il settore, portando con sè tutti coloro che vivevano in basso e salvando quelli che vivevano in alto, protetti da Anica, da Rai, da Sky e dalle piattaforme, nel silenzio imbarazzato del Consiglio superiore. Ha moltiplicato gli introiti dei potentati esteri, alcuni dei quali si sono impossessati anche delle strutture di Cinecittà, ed ha imbavagliato i sindacati che a loro volta hanno impedito ad attori e maestranze di reclamare un lavoro dignitoso. Tutto per la gloria delle major straniere, in assenza di reciprocità, che occupano stabilmente sia al cinema che in televisione il 70% del fatturato nazionale.
Ricordo a tutti, per l’ultima volta, che in Francia perché un film possa andare in televisione devono passare 15 mesi.
Credo sia un esempio sufficiente.
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