«O l'Europa decide seriamente di aiutare l'Italia in concreto, a partire ad esempio dai 180 immigrati a bordo della nave Diciotti, oppure saremo costretti a fare quello che stroncherà definitivamente il business degli scafisti. E cioè riaccompagnare in un porto libico le persone recuperate in mare». Nulla di nuovo dal fronte, verrebbe da pensare leggendo l'ultima invocazione del ministro Matteo Salvini a Bruxelles, se non fosse che al centro del dibattito in corso su dove sbarcare il carico di quasi duecento persone a bordo dello scafo italiano Diciotti, c'è in gioco la vita di queste persone e, anche qui nulla di nuovo, la stabilità e probabilmente anche la sopravvivenza dell'Unione Europea così come la si conosce. È ormai un copione che si ripete ogni qual volta una nave si imbatta in un gruppo, corposo o meno che sia, di migranti che tentano di raggiungere le coste italiane, greche o spagnole e che, nonostante qualche significativo gesto intrapreso da alcuni "volontari", così come scaturito dal Consiglio europeo di fine giugno, non sembra accennare a cambiare di registro. Non sono bastati i gesti, a questo punto dimostrativi più che risolutivi, di ripartizione equa tra diversi Paesi del numero di migranti salvati in mare dalla ong Aquarius e sbarcati una settimana fa a La Valletta in seguito ad un lungo ed estenuante tira e molla tra le autorità italiane e maltesi. Ora tutto sembra nuovamente ripetersi, con il caso di meno di un mese fa, risolto poi dall'intervento del Capo dello Stato che sbloccò concretamente la situazione, rendendo virtuale il sigillo dei porti imposto dal Viminale, a fare da spauracchio per una situazione di difficile gestione.
La nave Diciotti appartenente alla flotta della Guardia costiera italiana ha infatti recuperato in mare, in zona Sar maltese, 177 migranti senza però che l'operazione fosse coordinata dal centro competente e pertanto considerata, alla stregua delle leggi internazionali del mare, quale un atto deliberato di «intercettazione di una nave che esercita il suo diritto alla libertà di navigazione in alto mare» e pertanto non considerabile come un «salvataggio». Questa la difesa sostenuta da Malta e diffusa dal ministro degli Interni Michael Farrugia, che ha poi indicato in Lampedusa il porto sicuro più vicino dove sbarcare i migranti, definendo l'operazione della Diciotti, soltanto un modo per impedire all'imbarcazione carica di nordafricani di raggiungere le acque italiane. A negare questa tesi, abbozzando una difesa/accusa di rimbalzo, era già intervenuto il grillino Danilo Toninelli, ministro dei Trasporti, che parlava di «comportamento di Malta è ancora una volta inqualificabile e meritevole di sanzioni», in merito al mancato intervento delle motovedette maltesi nei confronti di una imbarcazione che però, a detta de La Valletta, non voleva essere soccorsa e né necessitava di soccorso. A riprova della "buona volontà" di «fare la propria parte», le autorità maltesi hanno poi diffuso la notizia del salvataggio da parte delle loro motovedette di 61 migranti a bordo di un gommone.
Una serie di rimbalzi sia di responsabilità che di tirate d'orecchie da una parte all'altra del Mediterraneo che non sta affatto rendendo più semplice o funzionale la gestione dei flussi e dei salvataggi, ma semmai innescando una pericolosa deriva violenta a cui anche i migranti stessi sembrano partecipare, in un clima che si è fatto rovente, alimentato dalle voci di corridoio che vorrebbero i migranti rimpatriati nei porti africani da cui partono e che contribuisce a casi come quello del conflitto sorto tra una nave della Guardia costiera tunisina e un gommone con a bordo venti richiedenti asilo, da cui sono partite molotov contro le autorità di Tunisi e da cui sarebbero scaturite almeno quattro vittime ripescate poi dalle autorità tunisine.
Senza contare che l'intenzione profilata da Salvini, quando parla di riportare in Libia il carico come ultima risorsa a disposizione dell'Italia in caso di mancato apporto dell'Ue, oltre a suonare come un sinistro mezzo di ricatto, assumerebbe tutti i contorni del respingimento, andando di fatto contro la convenzione di Ginevra, essendo quello di Tripoli un porto non considerato sicuro. Un dramma estivo che sembra soltanto inasprirsi, sebbene i numeri siano dalla parte del leader leghista quando parla di «ottantamila sbarchi in meno dall'inizio dell'anno e trentaduemila in quasi due mesi e mezzo da ministro». Una "vittoria" che per ora sta costando in termini diplomatici e che vede l'Italia in bilico tra la capacità di smuovere finalmente tutta la Comunità europea e portarla faccia a faccia coi problemi reali che alcuni Paesi devono affrontare in quasi totale solitudine e il rischio di un grosso buco nell'acqua che, oltre a costare il deterioramento dei rapporti con Bruxelles, macchierebbe l'immagine del nostro Paese, da sempre mosso da principi di solidarietà, trasformandolo in qualcosa di culturalmente lontano dai nostri costumi.
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