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La Lega teme le troppe inchieste e denuncia “Procure troppo vicine ai 5Stelle”, clima si arroventa



Il rischio di una nuova indagine “ai piani alti” leghisti

“Lunedì potrebbe arrivare un avviso di garanzia per un esponente molto in alto della Lega, forse persino a Salvini. Sarebbe il patatrac finale. A quel punto si rompe tutto”. La voce gira, con insistenza, e da giorni, nei corridoi di un Transatlantico di Montecitorio spettrale quanto deserto. Forse è solo una voce, ‘incontrollata’ come tutte le voci, probabilmente falsa. Forse, invece, il terrore corre sul filo (del telefono) di colonnelli leghisti che vivono, ormai, la ‘sindrome dell’accerchiamento’ (procure, poteri forti, Ue, chi più ne ha ne metta), sindrome che ha contagiato anche Salvini, in queste ultime ore. Avvisaglia, il ‘caso Diciotti’ (la procura di Agrigento archivia, il tribunale dei ministri di Palermo rinvia a giudizio il ministro, salvato dal Senato), primo colpo sparato – e animale ferito – sul ‘caso Siri’ (il sottosegretario leghista sotto inchiesta da parte della procura di Roma e, senza uno straccio di rinvio a giudizio, fatto ‘dimissionare’, su precisa volontà di Di Maio, dal premier Conte, nonostante la durissima ostilità di Salvini). Secondo colpo sparato – e animale rabbioso – sul ‘caso Lombardia’, che vede il governatore regionale, Fontana, coinvolto in un’inchiesta di corruzione che si è ramificata, in Regione, per molte vie, con tanto di ‘malattia’ (sincera) del povero Fontana che non si capacita di esserci finito. Terzo colpo sparato – e animale quasi esangue – l’inchiesta sulle raccomandazioni e i favori del sindaco di Legnano (comune simbolo per la Lega, causa l’antica battaglia), inchiesta che tira in ballo, direttamente, il nome di Salvini. Insomma, la Lega si sente ‘sotto attacco’, da parte della magistratura, che ritiene “sotto l’eterodirezione dei 5Stelle” e, anche, “complice e vassalla dei poteri forti italiani e Ue”.


E’ davvero scoppiata una ‘nuova Tangentopoli’?

E così ecco che, nell’impazzimento collettivo e generale della – cosiddetta e presunta - Terza Repubblica, si materializza l’uso – e, probabilmente, l’abuso - della “questione morale” e della “questione giudiziaria” (di “Nuova Tangentopoli” o “Tangentopoli 2.0” parla l’M5S), nell’agone politico, ma paradossalmente, per la prima volta, non viene agitata dalle forze di opposizione contro quelle di maggioranza (o viceversa, a volte…) ma all’interno della stessa maggioranza di governo, cioè di M5S contro la Lega. Oggi, da parte di Luigi Di Maio, l’ultimo attacco a Salvini sul fronte giudiziario ha probabilmente valicato ogni limite. In un’intervista al Fatto Quotidiano mette in chiaro una cosa, per lui già messa nero su bianco sul contratto di governo: se il viceministro leghista Edoardo Rixi (indagato per l’inchiesta ‘spese pazze’ della regione Liguria) dovesse essere condannato, dovrà lasciare. “Lo stabilisce il codice di comportamento previsto dal contratto – scandisce Di Maio - Gli auguro di risultare innocente, ma a lui si applicherà quanto abbiamo concordato. Comunque mi auguro che dopo il 26 maggio la Lega dismetta i panni dell’ultradestra e che si torni a ragionare con serenità”. Insomma, Di Maio è pronto a far ‘dimissionare’ Rixi esattamente come già fatto con Siri. Ma se Siri era (ed è) l’ideologo della flat tax leghista, Rixi è il braccio operativo di Salvini su tutte le Grandi opere. Non a caso è stato messo ai Trasporti, per ‘marcare stretto’ il ministro Toninelli.

Solo che il procuratore di Genova, Francesco Pinto, nell’ambito del processo sulle “spese pazze” della regione Liguria, ha chiesto a inizio maggio la condanna a 3 anni e 4 mesi a Rixi, accusato di peculato per la legislatura 2010-2012 e, entro fine mese, dovrebbe arrivare la sentenza. Se Di Maio chiedesse le dimissioni di Rixi, dopo aver preteso (e ottenuto) quelle di Siri, Salvini non potrebbe più reggere, al governo, perché ne andrebbe dell’onore suo e del partito. Insomma, la crisi esploderebbe, prima ancora che sui temi economici e sociali, tra Lega e M5S sulla questione morale, con un evidente vantaggio ‘di posizione’ per questi ultimi.


Di Maio rispolvera la “questione morale”

Di Maio non intende affatto abbassare la tensione, sul punto, anzi. Dato che le inchieste coinvolgono soprattutto il centrodestra (diversi deputati ed eurodeputati azzurri, specie lombardi), ma arrivano a lambire e toccare la Lega (fino, appunto, all’arresto di un sindaco leghista a Legnano) in un giro di tangenti e nomine pilotate, soldi e favori, che – a leggere le carte dell’inchiesta – fa un po’ impressione, calca la mano e affonda il coltello, come se fosse il capo di un partito che non sta al governo, ma… all’opposizione.

“Se certe inchieste si stanno svolgendo – dice - è anche grazie alle nuove leggi che abbiamo votato assieme alla Lega. Dopodiché se alcune inchieste territoriali dovessero arrivare più in alto ci sarebbero dei problemi. Si può andare avanti con il contratto di governo, in cui sono previste le norme etiche che abbiamo applicato a Siri. E come M5S, essendo maggioranza in Consiglio dei ministri, le faremo sempre applicare”. Insomma, un altro avviso di sfratto, solo che stavolta per Rixi, non per Siri. Una vera decimazione. “C’è una nuova Tangentopoli in Italia”, afferma Di Maio, “Sono i soldi delle tasse degli italiani che gli italiani pagano e finiscono nelle tasche dei corrotti. In tutte le forze politiche si può sbagliare, ma io chi sbaglia lo metto fuori in 30 secondi. La Lega allo stesso modo dovrebbe mettere fuori il sindaco di Legnano arrestato per corruzione”. Ecco, e così Di Maio va a insegnare come ci si deve comportare pure in casa altrui. Le premesse per la rottura ci sono tutte.


Molinari (Lega) reagisce: “Così non andiamo avanti”

Riccardo Molinari, capogruppo leghista alla Camera, di solito uno prudente e posato, oggi, intervistato da Radio Anch’io su Rai Radio1 parla di “escalation bizzarra” nelle inchieste: “C’è un escalation abbastanza bizzarra nelle ultime settimane nei confronti della Lega e in generale nei confronti dei territori dove la Lega governa. Diciamo che lasciano sorpresi alcune inchieste. Siamo abituati da tanto tempo: spesso capita che sotto elezioni vengano fuori inchieste sui politici. Non ci sentiamo sotto attacco ma sottolineiamo la tempistica”, sottinteso: assai sospetta.

Poi Molinari si rivolge ai 5 Stelle, Luigi Di Maio in primis: 2Io penso che Di Maio abbia impostato la campagna elettorale del M5s facendo una distinzione morale tra loro e noi. Che stia usando il tema delle inchieste per una propaganda elettorale non sui temi ma sulle persone e questa è una cosa molto grave. Un conto è il teatrino della campagna elettorale, un conto è quando si fa una differenza antropologica tra onesti e disonesti e si mettono i propri alleati dall’altra parte del mondo. Quando manca la fiducia e se Di Maio è convinto che la Lega sia un partito di corrotti, andare avanti diventa molto complicato”. Ecco, appunto: andare avanti, per i leghisti, è “molto complicato”.


Tutte le inchieste che mettono in crisi la Lega

Certo è che la Lega, da questo punto di vista, ‘non aiuta’. Prima le inchieste sui 49 milioni di rimborsi elettorali sottratti allo Stato (due le inchieste in campo e i processi in corso: una della procura di Genova, l’altra di Milano), poi le ‘donazioni’ ricevute dal tesoriere Centemero per circa tre milioni di euro da parte di ‘generosi’ soggetti privati che davano finanziamenti in cambio di (presunti) favori. Infine, forse non dimentichi dell’altra pista seguita dalle Procure contro la ‘vecchia’ Lega, quella di Bossi e di Belsito, che hanno seguito il flusso di soldi su conti esteri (Kenya, etc.), anche altri filoni d’inchiesta aperti su finanziamenti leciti (e, forse, illeciti) arrivati alla Lega dalla Russia e altri stati. E, insomma, ci mancava solo Legnano, che da culla storica della Lega rischia di diventare il contrappasso di Salvini. Il sindaco Fratus e l’assessore alle opere pubbliche, Chiara Lazzarini, sono finiti agli arresti domiciliari per corruzione elettorale e nomine pilotate. Il vicesindaco Maurizio Cozzi, invece, è finito, per le stesse ipotesi di reato, in galera perché “il senso di impunità pervade tutto l'operato della sua amministrazione”. Una brutta storia, quella di Legnano, per gli argomenti messi in fila da giudici e pm: un sindaco che, scrive Piera Bossi, il gip di Busto Arsizio, “pensa solo a collocare amici”, comunque persone “gradite” e in ogni caso “manovrabili in quanto asservite alle loro direttive”. Un sistema di governo basato, secondo le accuse, solo su scambi di favori in barba ad ogni regola e meritocrazia. Persino il voto sarebbe stata una merce di scambio. “Prima del ballottaggio in Regione ho fatto un accordo con Paolo Lalli, Salvini e quell’altro provinciale loro della Lega” dice in una intercettazione l’assessora Lazzarini. L’accordo consisteva nel fatto che “al ballottaggio mi avrebbero sostenuto e io in cambio gli avrei dato un posto”. A una settimana dal voto, non ci voleva: il Salvini che lotta contro le mafie o “chi ruba va in galera” è indicato come contraente di un sostanziale voto di scambio.

Impossibile sapere se era Legnano lo spiffero su cui da settimane il Capitano ha perso il sonno (“Le procure, dove i grillini hanno tanti amici, ci stanno preparando un colpo gobbo” aveva confidato ai suoi) o se, invece, c’è ancora dell’altro e altrove, inchieste che devono ancora emergere. Fatto sta che da tre settimane le inchieste giudiziarie si inseguono dal Nord al Sud, dalla Calabria alla Lombardia. Qui, da dieci giorni va avanti, giorno dopo giorno, la mega inchiesta della Dia di Milano, arrivata a oltre cento indagati. Per ora sono guai per Forza Italia: ieri l’eurodeputata Lara Comi si è dovuta difendere dall’accusa di aver mascherato sotto consulenze fasulle alla sua società di comunicazione 70 mila euro pagate dal capo degli industriali lombardi. Il sospetto è che siano soldi utilizzati per la campagna elettorale per le Europee: “Sono compensi reali” ha ribattuto l’europarlamentare azzurra.

Nel frattempo, anche il partito del Cavaliere fa repulisti: nella stessa inchiesta di Milano, diversa da quella di Legnano, sono indagati molti amministratori di Forza Italia della provincia di Varese e per tre di loro (Bilardo, Petrone e Pedroni) ieri è stata decisa la sospensione dal partito. Fatto sta che, ormai da tre settimane, il vento di una nuova Tangentopoli ha ripreso a soffiare costruendo il ‘mostro’ Siri fino a spingerlo alle sue dimissioni forzate (la prima vera sconfitta politica di Salvini) con tutto quello che ne è seguito. Di Maio ha ritrovato slancio per recuperare consensi. Ieri il copione, congelato da qualche giorno, ha ripreso a girare a pieno ritmo con le nuove inchieste.


Salvini si fa garantista…

Salvini, a questo punto, si è calato nei panni del leader politico che dice di rimettersi alla giustizia, sperando che faccia “presto e bene”, e rivendica ogni minuto che nessuno è colpevole fino al terzo grado. In realtà, sa di aver ‘perso’ col caso Siri, soffre il ‘giustizialismo’ di Di Maio, più populista del suo garantismo che fa un po’ casta. Da qui si spiega l’impennata mediatica su direttive e decreti sicurezza bis con cui il ministro dell’Interno tenta il recupero, nei consensi, prima del voto del 26 maggio. I suoi, però, parlano di giustizia ad orologeria, “inchieste come piovesse a pochi giorni dal voto delle Europee”.

Sono spaventati dagli sviluppi dell’inchiesta di Milano, che interessano uomini e donne di punta di Forza Italia, ma anche della Lega (e vicini al sottosegretario Giorgetti), e tutti collocati tra Milano e Varese: un tramite, in realtà, per arrivare alla Lega e a Salvini. E sono preoccupati dalle voci per “un paio di imprenditori sentiti dai pm come persone informate sui fatti e usciti indagati per corruzione”.


Di Maio e la “superiorità morale” (ma è dubbia)

Di Maio, invece, esalta e cavalca la questione morale e si porta a casa qualche punticino in più nei sondaggi. Non perde occasione per ricordare a tutti che “Salvini fa l’offeso per il caso Siri” e intanto lo bombarda di provocazioni. “La corruzione è una enorme emergenza nazionale”, dice, e Salvini “non può tacere per quanto è successo oggi. Il 26 maggio la scelta è tra noi è una nuova Tangentopoli”. Come se non bastasse Di Maio ci si mettono il Guardasigilli e altri pezzi da novanta come il sottosegretario Crimi (che, per dirne, una, ha certificato la morte di Radio Radicale) a battere il petto in fuori: “I 5 Stelle sono l’unico baluardo della legalità”; “Salvini deve capire, noi siamo intransigenti contro la corruzione”, come dire che il segretario leghista lo meno. Il giustizialismo come arma per il consenso: una scorciatoia pericolosa e anche a doppio taglio. Solo un anno fa Di Maio indicava Siri come possibile ministro economico, eppure aveva già patteggiato 20 mesi per bancarotta fraudolenta. Solo pochi mesi fa il Movimento 5 Stelle ha salvato Salvini dal processo per il sequestro di 160 migranti costretti a bordo della nave Diciotti. La giunta Capitolina romana è stata interessata da varie inchieste in questi tre anni e Di Maio non ha mai chiesto le dimissioni della sindaca Raggi. La corruzione è un male che ha attaccato anche il Movimento: il presidente dell'assemblea capitolina, Marcello De Vito, è in carcere da due mesi come vari professionisti (uno per tutti: Lanzalone) ingaggiati dalla Raggi per sveltire la macchina comunale.


La Lega attacca “il partito delle procure”

La memoria diventa, così, corta e a senso unico. Di Maio ha tirato fuori dal cassetto il giustizialismo e la stella dell’onestà per fini elettorali con un tempismo perfetto rispetto all’inchiesta di Milano che ha coinvolto Siri e la Lega. Così, a dieci giorni dal voto, i 5 Stelle possono mettersi nella metà campo dell’onestà e dichiararsi, senza alcun imbarazzo, il partito delle procure. La Lega è arrivata ad ipotizzare, in questi giorni, che ci sia “un canale diretto” tra uffici delle procure e i 5 Stelle. Tesi ardita. Non facilmente dimostrabile, al netto di qualche consuetudine personale e della condivisione di argomenti. Non c’è dubbio che i più convinti sostenitori del mantra di Piercamillo Davigo, ora membro del CSM, e cioè che “i politici non hanno smesso di rubare ma hanno smesso di vergognarsi” siano oggi i 5 Stelle. Un tempo, neppure lontano, era il Pd. Ma se il ventennio berlusconiano sarà ricordato soprattutto per la guerra tra politica e magistratura, anche la presunta Terza Repubblica potrebbe esserlo. E il governo gialloverde potrebbe finire non per uno scontro sulle questioni economiche, ma sulla giustizia.


di Ettore Maria Colombo

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