È un segnale, un dettaglio pure piccolo se volete, ma ieri alla notizia della morte di Gianni De Michelis esponente di spicco del Partito socialista italiano e più volte ministro, mentre sulle agenzie scorrevano le dichiarazioni degli esponenti di quasi tutti i partiti politici non ve n’è stata una che è una targata Cinque stelle. Nemmeno per tirare fango su uno degli ultimi craxiani che se ne andava. Nemmeno per raccontare alla suburra pentastellata che popola i social quale sordida stagione di vizio e corruttela fosse la prima Repubblica di cui quel capellone veneziano con il gusto delle discoteche e delle belle donne era, malgré lui, uno dei rappresentanti più iconici. Nemmeno per dare agio ad un Alessandro Di Battista qualunque di rispolverare compiaciuto le battutacce del Beppe Grillo comico sui socialisti che rubano. Niente. Chi scrive, lo confessa, ha pensato: forse stanno compulsando Wikipedia per capire chi diavolo fosse mai De Michelis. Ma la verità è un’altra. Non dire nulla su un politico che nel bene e nel male ha fatto la storia d’Italia (e in parte anche d’Europa, essendo sua la firma sotto il trattato di Maastricht) era il modo migliore per ostentare la loro estraneità a tutto ciò che c’era prima. Segna in maniera evidente non solo l’ignoranza assoluta degli uomini nuovi che hanno conquistato l’Italia ma la loro lontananza e il loro distacco dalla storia di questo Paese. Estranei e perciò stesso innocenti. Destra, sinistra, fascismo, antifascismo, privatizzazioni, nazionalizzazioni per loro non sono concetti e visioni contrapposte del mondo, sono occasioni. Punto. E parlare di De Michelis, foss’anche per criticarlo è una impresa oltre che faticosa intellettualmente, scarsamente spendibile nel suk della politica di oggi. Tangentopoli di cui si riempiono tanto la bocca, ai grillini serve giusto per inventarsi una presunta verginità e/o per dare addosso agli avversari. Anche quelli con cui sono alleati. Vedi Di Maio che ieri da Pescara dichiarava: «In realtà Tangentopoli non è finita, sono solo cambiati gli strumenti di corruzione. E tutti i discorsi sulle tendine sui simboli religiosi nei cimiteri, la discussione sulla legge sull'aborto, sono tutti mezzi di distrazione di massa».
E’ evidente che ragionare su De Michelis, su cosa ha rappresentato il partito socialista nella storia di questo paese, cogliere la temperie di una stagione iniziata con il congresso del Midas del 1976 - in cui Craxi, con il sostegno dei quarantenni del partito, tra cui appunto il “doge” De Michelis, defenestra De Martino e archivia l’immobilismo socialista - e che si chiude nel 1993, quando sotto il peso delle inchieste giudiziarie Craxi passa la mano e si apre una diaspora socialista che non è mai terminata, richiede analisi storica. Significa capire quella che un altro grande vecchio del Partito socialista, Rino Formica chiama da tempo la «gloria sciupata» del riformismo. Quel riformismo che non seppe capire fino in fondo che sulle macerie di Yalta per il socialismo italiano si potevano aprire prospettive nuove (nel 2003, nel libro “La lunga ombra di Yalta”, De Michelis sosteneva che «Craxi, che ha rappresentato il momento più alto del tentativo di andare oltre Yalta, alla fine ha pagato con la vita».
Ricordando De Michelis Emma Bonino usa quasi le stesse parole di Formica. Quella degli anni Ottanta, dice l’esponente radicale, «fu una stagione che avrebbe potuto preludere alla vittoria di un riformismo socialista e che, invece, nonostante le molte scelte positive che furono compiute, si concluse con una serie di occasioni mancate che impedirono la riforma democratica del nostro sistema politico».
E’ vero, dopo la caduta del Muro il Psi di Craxi propone ai compagni del Pds l’unità socialista, ricevendo in cambio un niet. Martelli e De Michelis in quel periodo premono su Craxi perché stringa il dialogo con gli ex comunisti ma il leader socialista non insiste come avrebbe dovuto e ci mette poco a tornare sotto l’ombrello del Caf. L’unità socialista rimane solo un titolo e all’inizio degli anni 90 è oramai troppo tardi: l’esplodere di Mani Pulite infrange ogni speranza di liberare la democrazia italiana bloccata.
Il Pci poi Pds, che pure dopo l’89 avrebbe potuto chiudere quella frattura che si era aperta a Livorno nel 1921, pensò – errore tragico – che la questione dei rapporti a sinistra si sarebbe risolta una volta per tutte e per via giudiziaria a suo favore. La competizione a sinistra si chiudeva invece senza veri vincitori. Rimaneva un cumolo di macerie di cui Renzi è stato in qualche misura il prodotto.
Di questa gloria sciupata De Michelis è stato spettatore e protagonista. E ha pure seminato. Tanti politici ancora in sella sono “figli” suoi. Parliamo di Brunetta, di Sacconi e, perfino Tria.
La sua preparazione e competenza ieri è stata ricordata da tutti, anche da quella Cgil con cui si scontrò – anche se, in verità, fino all’ultimo sperò di evitarlo – sulla vicenda della scala mobile. Sergio Mattarella ha affermato ieri che De Michelis «ha segnato con la sua azione una significativa stagione della politica estera del nostro Paese, nella fase che faceva seguito al venir meno del contrasto est/ovest. Le sue intuizioni e il suo impegno sulla vicenda europea, dei Balcani, del Medio Oriente e del Mediterraneo, hanno consolidato il ruolo internazionale dell'Italia e contribuito alla causa della pace e della cooperazione internazionale». Mentre per Antonio Tajani «è stato un grande politico e un uomo di grandissima intelligenza». Per Margherita Boniver, presidente della Fondazione Bettino Craxi De Michelis è stato «il più autorevole e creativo ministro degli Esteri che l’Italia ricordi, fu uno dei primi a capire il risveglio del gigante asiatico cinese». Paolo Gentiloni parla di lui come un «socialista intelligente e controverso. Da ministro degli Esteri ha onorato il nostro paese».
Ma non è solo questo De Michelis. E’ anche uno che, dopo la note tragica dell’Hotel Raphael quando Craxi viene bersagliato dal lancio di monetine e mentre i tanti che andavano a bussare ossequiosi alla sua porta di via del Corso si defilano o prendono le distanza rimane accanto a Craxi. Uno dei pochi. E Stefania Craxi ricorda che «è stato compagno e amico di mio padre nella buona e nella cattiva sorte».
La cattiva sorte del socialismo italiano è anche, a ben vedere, la cattiva sorte del paese. E’ quella cattiva sorte che fa dire a Vittorio Sgarbi, caustico come sempre, che passare da «De Michelis a Di Maio è come dire da Cesare al re degli analfabeti». Difficile dargli torto.
di Giampiero Cazzato
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