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La teoria dei punti critici positivi per combattere il cambiamento climatico



Di solito, quando si parla di cambiamenti climatici, il punto critico (tipping point) indica una situazione negativa. Sono i cosiddetti punti di non ritorno oltre i quali i processi climatici peggiorano inesorabilmente. Finora il Pianeta ne avrebbe raggiunti nove ma non li avrebbe ancora superati. Sono: lo scioglimento del ghiaccio artico, la calotta glaciale della Groenlandia, le foreste boreali, il permafrost, il capovolgimento meridionale della circolazione atlantica, la deforestazione della foresta amazzonica, la perdita dei coralli, la calotta glaciale antartica, il Bacino di Wilkes. Se la temperatura della Terra dovesse salire di 2 gradi centigradi, il disastro sarebbe inevitabile.

Il 2020 è stato, insieme al 2016, l’anno più caldo di sempre. Lo confermano le rilevazioni del Berkeley Earth che parlano di un aumento di + 1,2 gradi centigradi rispetto alla media registrata nell’età preindustriale (1850-1900). Per far rimanere sotto la soglia dei 2 gradi centigradi il riscaldamento terrestre, occorre ridurre velocemente le emissioni inquinanti.

Cosa fare? Secondo uno studio condotto da Simon Sharpe e Timothy Lenton, intitolato Upward-scaling tipping cascades to meet climate goals: plausible grounds for hope, bisogna individuare i punti critici positivi che si sono già innescati in alcuni Paesi ed implementarne la diffusione. In cosa consiste questa teoria? Ce lo spiega Luca Re su Qualenergia.it: “In questa teoria si parla soprattutto di due settori: trasporti stradali e produzione di energia elettrica.

Tali punti critici si attivano quando una piccola perturbazione iniziale è in grado di trasformare, nel tempo, un intero sistema grazie all’effetto-domino: in pratica, si attivano reazioni a cascata che si autoalimentano portando a cambiamenti che possono essere irreversibili.”

Secondo Sharpe e Lenton, le nuove tecnologie che si diffondono nei mercati e nelle società, tendono a beneficiare di “feedback multipli” che si rinforzano a vicenda. Si parla di economie di scala, miglioramenti tecnici e produttivi, nascita di tecnologie complementari, riduzioni di costo.

Le fonti rinnovabili, e il fotovoltaico in modo particolare, seguono le cosiddette curve di apprendimento (learning curves): “Ogni volta che raddoppia la capacità cumulativa installata in una data tecnologia – spiegano i due ricercatori - il costo di quella stessa tecnologia si riduce sensibilmente.”

In alcuni Paesi, in pochi anni, le rinnovabili sono diventate molto più economiche delle fonti fossili (gas, carbone, petrolio). Sharpe e Lenton analizzano, in particolare, il caso della Gran Bretagna. Con la carbon tax è crollato l’uso del carbone per la produzione di energia elettrica a vantaggio del gas, divenuto più economico.

Altro esempio è il mercato dell’auto elettrica.

“Le vendite di veicoli alla spina sono il 2-3% del mercato globale, ma la Norvegia, grazie a diversi fattori (incentivi e politiche di supporto alla mobilità elettrica), nel 2020 è riuscita a portare le auto elettriche a più del 50% delle vendite per la prima volta in assoluto nel mondo.”

Un punto critico positivo fondamentale ci sarà quando le auto a batteria (senza incentivi) costeranno meno di quelle a benzina o diesel.

Più a lungo una politica, come quella della Norvegia per le auto, mantiene il mercato nella sua nuova condizione, più aumenta la probabilità che il cambiamento diventi permanente. Infatti, si verificano effetti a cascata (feedback) che si rinforzano: discesa dei costi delle batterie, economie di scala, investimenti in super-fabbriche per veicoli elettrici, e così via.


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