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La tifoseria della grande stampa per la linea dura di Bruxelles e gli errori del governo



Chissà che delusione oggi per i grandi giornali anti governo vedere che lo spread non è decollato. Di sicuro si aspettavano il botto, magari come nel 2011 quando a quota 550 Berlusconi fu costretto a lasciare il posto a Mario Monti. Ma niente lo spread sembra inchiodato intorno a 300 e Piazza Affari non registra scossoni, entrambi incuranti, pare, della bocciatura della Commissione europea alla legge di bilancio. Qualche commentatore ha spiegato questa indifferenza con il fatto che la bastonata di Bruxelles era prevista e quindi già scontata. Eppure da Repubblica a La Stampa all’Huffington Post, hanno fatto di tutto e di più per incitare i mercati a dare un calcio finanziario a Salvini e Di Maio. Lucia Annunziata è arrivata a paragonare l’Italia alla Grecia, con una sorta di compiacimento mentre Repubblica sono giorni che fa il conto alla rovescia per il verdetto della Commissione. Un fuoco contro così intenso non si era visto dagli ultimi giorni di Berlusconi a Palazzo Chigi, quando addirittura fu organizzata dalla sinistra una manifestazione estemporanea di addio davanti a Palazzo Grazioli.


Nemmeno la stampa d’oltre frontiera, quella francese e tedesca, da sempre ostili al nostro Paese, hanno martellato così duramente a favore della bocciatura della manovra economica. Come se quei commentatori, quei giornali appartenessero a un altro Paese e provassero una sorta di gusto sadico a vedere uno Stato competitor in difficoltà, pronti ad approfittare della sua debolezza. Lungi qui dal voler fare una difesa di questa manovra che contiene diversi punti deboli ma di qui a tifare perché la mannaia dell’Europa cali sull’Italia, ce ne vuole. Anche perché se dovesse davvero partire la procedura d’infrazione (si attende il via libera degli altri partner europei) sarebbero problemi per tutti. Sono voci isolate quelle che ventilano l’ipotesi che il pugno di ferro di Bruxelles sia riconducibile più a una strategia politica che alla necessaria reazione a un Paese ribelle. Il target del deficit al 2,4% non giustifica una decisione che non ha precedenti nella storia della UE. Ma le elezioni europee sono alle porte e tutto acquista una valenza elettorale. Bruxelles che altre volte ha concesso flessibilità a piene mani, ora ha assunto una posizione più rigida. Ogni concessione, anche in nome della crescita, viene vista come un passo indietro all’avanzata di quelle famiglie populiste che stanno contestando le logiche della politica economica dell’Unione. Punire l’Italia sarebbe un segnale per chiunque volesse derogare dai binari tracciati sin dal trattato di Maastricht.


L’Europa così com’è non si mette in discussione, almeno fino a quando, i due Paesi guida, o almeno percepiti come tali, cioè Francia e Germania, non avranno concordato una nuova strategia per la UE. Ma al momento l’Eliseo è sotto assedio da un elettorato che si è sentito tradito da Macron, e Berlino è alla ricerca di una nuova guida mentre sta tramontando la lunga stagione del Cancelliere Merkel. Purtroppo il governo Conte ha impostato la dialettica con Bruxelles sul piano puramente dell’interesse domestico, sulla rivendicazione delle scelte sovrane di alzare l’asticella del debito nella speranza di drenare risorse all’economia. Ecco quindi che rischiamo di apparire come “un popolo di mercanti di tappeti o di accattoni” come dice il vicepremier Salvini. Diverso invece sarebbe stato inquadrare le scelte italiane nel contesto di un cambiamento delle strategie che hanno governato finora l’economia europea. Il nostro Paese diventerebbe il motore di un riformismo dell’Eurozona, non il mendicante che chiede un po' di flessibilità per far tornare i conti.


di Laura Della Pasqua

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