Non tutti i supereroi indossano una maschera, ma qualcuno indossa il velo. Anzi, qualcuna. È il caso di Parisa Pourtaherian, una giovane fotografa iraniana che desidera riprendere le partite di calcio del campionato nazionale. Il problema? Le leggi del Paese vietano alle donne di entrare negli stadi durante le partite di calcio. E camuffandosi da uomini si rischia di essere scoperte con conseguente arresto dalle autorità. Lo raccontava Jafar Panahi, regista condannato a sei anni di prigione e bandito dal cinema per venti anni a causa delle sue pellicole “Il cerchio” e “Fuorigioco” che denunciavano questa discriminazione.
Ma ciò nonostante, Parisa si è fatta coraggio e, qualche giorno fa, quando sono iniziate le partite della Lega nazionale, per poterne fotografare una si è arrampicata su un tetto vicino allo stadio, iniziando a scattare. Notata da alcuni maschi intenti ad osservare la partita, questi le hanno scattato delle foto, diventate virali e ormai presenti nei giornali del mondo intero.
Un evento tanto semplice quanto efficace, che mostra in modo chiaro come questa disparità dei sessi sia da fin troppo tempo ancora presente. Ma come risolvere la situazione? Come si sta evolvendo la situazione nei paesi arabi? Come si sta ponendo la nostra società nei confronti del problema? Abbiamo chiesto di rispondere a questi interrogativi a Souad Sbai, vicepresidente dell?istituto Armando Curcio e docente di Diritto dei Paesi Islamici. Negli anni ha tenuto corsi master e seminari dei diritti delle donne, dell’infibulazione e dell’immigrazione ed integrazione, ed è inoltre membro di Italian Diplomatic Academy, ente di formazione italiano accreditato come ONG affiliata al Dipartimento di Pubblica Informazione delleNazioni Unite. Souad, da sempre sostenitrice della battaglia contro la violenza sulle donne, combatte per dare voce a tutte coloro che subiscono violenza sia fisica che psicologica e che sono sacrificate sull'altare delle tradizioni. Ha combattuto contro l'integralismo Islamico, che limita soprattutto i diritti e la libertà femminile, scrivendo diversi libri e manifestando apertamente il suo pensiero, senza mai aver paura.
Signora Sbai, ci può spiegare in breve la situazione delle donne nei paesi arabi?
Sicuramente si può dire che avremo un “autunno caldo”, dato che dall’Egitto, Tunisia, Marocco e Iran le donne si stanno muovendo bene, lottando per i loro diritti. In Tunisia, per esempio, sta per passare la legge sull’eredità. E se davvero passasse le donne di tutto il mondo arabo avrebbero compiuto un passo gigantesco. Si avrebbe finalmente uguaglianza nell’eredità. Anche il Marocco ne sta discutendo. Le donne saudite stanno lavorando molto, e col nuovo re Salman i diritti cominciano ad essere acquisiti. Addirittura ora le donne possono guidare senza avere sempre con sé un tutor che le accompagni, che firmi per loro, che le controlli insomma. Sono passi lenti, ma importanti. Ma il Nord Africa, purtroppo, qualche passo indietro lo ha fatto negli ultimi anni, con l’avanzata dei Fratelli Musulmani. Va recuperato tutto ciò che è stato perso e al più presto, per non lasciare spazio all’estremismo islamista.
Quali altre limitazione gravi può dirci legate alle donne dei paesi arabi?
Le donne iraniane sono per fortuna più avanti di chi le governa: il sessanta per cento di loro frequenta l’università. Non possono andare in giro col capo scoperto perché rimane un obbligo, ma comunque hanno fatto passi da gigante, soprattutto in Iran. Anche se, essendoci la dittatura, bisogna fare attenzione, poiché per un errore si può pagare con la vita. La donna che va a fotografare lo stadio è sicuramente un evento importante. Ma la cosa bella non è tanto il fatto che lei sia lì a scattare delle foto, quanto che dallo stadio qualcuno muova la sua attenzione verso di lei e faccia sapere del suo gesto a tutto il mondo. Sia gli uomini che le donne iraniane stanno con sofferenza chiedendo i loro diritti, e se li meritano. Non si può opprimere una parte del popolo perché vaga a capo scoperto, è una vergogna. Ma il problema è che queste donne non sono aiutate dall’occidente, che invece potrebbe fare molto. Mi sembra infatti che l’occidente aiuti gli oppressori, piuttosto che gli oppressi. Non c’è una organizzazione forte che supporti queste donne arabe, al massimo ci sono organizzazioni integraliste pro-Ayatollah.
Pensa che la vicenda di Parisa, ora che la notizia si è diffusa per il mondo, possa in qualche modo aiutare le donne dell'Iran nella conquista di maggiori diritti?
Le donne iraniane non devono far affidamento sull’occidente, perché non gliene importa niente di loro. Ricordo di quella ragazza che si tolse il velo in piazza con un bastone, volgendolo verso l’alto. È stata arrestata e ora sta marcendo in un carcere. Non abbiamo ancora notizie di lei. Per poter realmente cambiare la situazione le donne arabe devono prendere il loro futuro in mano, puntando alla libertà totale e l’uguaglianza delle donne. Non devono aspettarsi nulla da noi e da questa parte, perché anche noi stiamo tornando indietro.
Lei che ha vissuto per 20 anni in Marocco, alla luce anche di questi fatti, come crede che si sia evoluta la situazione in questi anni? In meglio, in peggio, o una via di mezzo?
Penso sia meglio parlare di un processo, un progetto ampio che i Fratelli Musulmani hanno voluto e lo hanno portato avanti con silenzio e caparbia. Stanno cercando una re-islamizzazione della popolazione. Il progetto è nato nel 1929, ma ne ho parlato meglio nel mio libro “I Fratelli Musulmani e la conquista dell'Occidente”, dove ho spiegato come loro portano avanti questo disegno anche sulla testa della donna, perché sanno che sarebbe pericoloso lasciarle libere. È durata tanto la repressione iraniana, trent’anni, quasi quaranta, e sono troppi. Solo ora le donne stanno cominciando a prendere la situazione in mano. Nelle donne tunisine e marocchine, ad esempio, noto un alto tasso di occupazione: metà di loro sono dottoresse, professoresse universitarie, farmaciste, o in generale partecipano alla vita economica e sociale del paese. E non possono, una volte arrivate all’eredità, dare la metà. Loro sono pronte, adesso, a combattere questa battaglia fino in fondo.
Cosa si sente di dire alle donne di questi paesi per spingerle a combattere per i propri diritti?
Se fossi lì con loro metterei subito in gioco la mia vita. Lo faccio anche qui a dirla tutta, dove le donne comunque non hanno molto spazio. La metà delle immigrate vive nella segregazione totale del nostro paese. Io combatto una battaglia in Italia per aiutare le donne arabe affinché non rimangano indietro rispetto a quelle rimaste nei loro paesi d’origine, perché il rischio esiste. Cerco solo di portare quello che succede lì da loro qui, nella nostra penisola, per informarle di cosa sta accadendo nella loro patria. Ma è chiaro che anche qui non bisogna fermarsi, perché ne vale veramente la pena combattere questa battaglia anche con la vita. Sono fiduciosa, lo faccio da quindici anni in Italia, anche se pensavo sarebbe stato più facile.
In che modo secondo lei si può cambiare la mentalità di un paese?
Con la cultura, senza di essa non si fa nulla. Con tanta cultura. Più un popolo è analfabeta e più questo eviterà di reagire. Ma con la cultura qualcuno alza la voce, o comunque genera un pensiero diverso. Il problema è che questo non è ciò che vogliono quelli che comandano, soprattutto quelli a capo del progetto Fratellanza Musulmana. Loro vogliono che le donne rimangano dentro casa, vogliono un popolo che non legga nemmeno un libro, vogliono l’analfabetismo totale: così vincono facile. Ma noi possiamo recuperare. Ciò che mi preoccupa, però, è che negli ultimi due anni molte bambine giunte qui in Italia non hanno frequentato la scuola dell’obbligo. Questo fa parte del fondamentalismo, ma nessuno alza la voce. Mi dispiace per le donne che hanno combattuto per la causa.
di Alessio La Greca
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